Il suicidio di Michele: una lettura politica in risposta a chi punta il dito contro la generazione dei precari

Giuseppe D'Elia
Lavoro, lavori e coscienza di classe
3 min readFeb 9, 2017
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Devo tornare (*) sul caso del suicidio di Michele e sulla sua lettera d’addio perché il punto che gli omologati non riescono a comprendere è che «La vita è dura e ingiusta. Occorre farsene una ragione. E attrezzarsi» e tante altre stronzate propagandiste di questo tipo sono solo ed esclusivamente la faccia pulita della legge della giungla e del darwinismo sociale che sono diventati pensiero dominante, grazie a un martellamento continuo di tutta la pubblicistica finanziata dal ceto dominante per far sparire anche solo dall’orizzonte delle ipotesi l’idea che possa esistere una società più giusta ed egalitaria.

Esco dal dramma del singolo e torno sul dramma della generazione sconfitta perché la prima sconfitta è politica: noi condannati all’esistenza precaria e alla competizione senza regole dovremmo batterci e chiedere non le regole per poter vincere la competizione, ma la fine della competizione come unica regola.

O, come minimo, se proprio si pensa che la competizione non puoi cancellarla facilmente in poco tempo, battersi per cancellare questa idea falsa e bugiarda che riduce l’eguaglianza alle pari opportunità nella competizione.

A noi che crediamo nell’egalitarismo e vogliamo una società più giusta deve interessare innanzi tutto che, nella competizione di mercato, anche gli ultimi, anche quelli che perdono e non riescono ad essere “i migliori” possano avere in ogni caso «un’esistenza libera e dignitosa».

«Mi ha suscitato una grande rabbia non contro un’epoca che precarizza il lavoro, anzi, siamo franchi, tende ad ucciderlo, ma contro tutti quei ragazzi che hanno usato una lettera scritta da un ragazzo depresso e arrabbiato per giustificare le proprie debolezze e i propri fallimenti», scrive questa persona che pensa che il problema sia che molti di noi non sappiano perdere.

Non è questo il punto.

Il punto è che una società che ha i mezzi e la tecnologia per garantire a tutti il benessere ma preferisce usare questi mezzi per permettere ad alcuni di accumulare quasi tutto e di distruggere il pianeta, mentre la maggioranza delle persone deve competere per sopravvivere, per alcuni individui (e sicuramente per me), è una società ingiusta e insopportabile anche se si riesce a stare dalla parte di quelli che hanno vinto o comunque da quella che non sta perdendo tutto.

Il punto è che per alcuni non conta solo ed esclusivamente la propria sorte individuale e “che si fottano tutti gli altri!”.

Ma posso comprendere che di questi tempi un discorso del genere possa sembrare alieno ai più.

E così il cerchio si chiude.

(*) A caldo avevo scritto questo, che trascrivo anche qui per completezza:

- il mio processo di identificazione finisce esattamente dove taglio la frase della lettera di addio di Michele, pubblicata per volontà dei suoi genitori.

Io continuo a credere che ci si possa e ci si debba ribellare a tutto questo e che si debbano trovare forme di azione collettiva che diano forza e senso a questa domanda di cambiamento.

L’alternativa al soffrire è lottare.

Empatia e rispetto per il dolore del vissuto, comunque: nessuno dovrebbe sentirsi così solo e perduto.

- Non sono rappresentato da niente di ciò che vedo e non gli attribuisco nessun senso: io non c’entro nulla con tutto questo. Non posso passare la vita a combattere solo per sopravvivere, per avere lo spazio che sarebbe dovuto, o quello che spetta di diritto, cercando di cavare il meglio dal peggio che si sia mai visto per avere il minimo possibile. Io non me ne faccio niente del minimo, volevo il massimo, ma il massimo non è a mia disposizione.

Di no come risposta non si vive, di no si muore, e non c’è mai stato posto qui per ciò che volevo, quindi in realtà, non sono mai esistito. Io non ho tradito, io mi sento tradito, da un’epoca che si permette di accantonarmi, invece di accogliermi come sarebbe suo dovere fare.

Lo stato generale delle cose per me è inaccettabile, non intendo più farmene carico e penso che sia giusto che ogni tanto qualcuno ricordi a tutti che siamo liberi, che esiste l’alternativa al soffrire (…).

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Giuseppe D'Elia
Lavoro, lavori e coscienza di classe

Giornalista e avvocato. Segue da oltre vent’anni le tematiche politiche legate ai diritti dei lavoratori. Musicista nel poco tempo che resta