Redistribuiamo la ricchezza, non i migranti

Giuseppe D'Elia
Lavoro, lavori e coscienza di classe
6 min readSep 30, 2015

Nelle scorse settimane la parola “redistribuzione” ha goduto di un ampio e, prima d’ora, mai visto risalto mediatico. Solo che non si è parlato affatto di redistribuzione delle ricchezze, magari sulla scorta dell’ultimo rapporto Oxfam sulla disuguaglianza (su cui molto ci sarebbe da dire e qualcosa proveremo anche a dirla, di seguito).

Nelle ultime settimane la “redistribuzione” è stata letteralmente al centro del sistema informativo, ma con riferimento alle quote di popolazione in fuga dalle zone più problematiche del mondo, che l’Europa (forse) può permettersi di accogliere.

Non entriamo nemmeno nel merito della valenza politica, concettuale e informativa della distinzione tra richiedenti asilo, rifugiati e semplici migranti.

Non c’è bisogno di mettersi a fare tutte le distinzioni del caso, quando mediaticamente, nello stesso intervallo di tempo, ci si trova di fronte a eventi tragici e dirompenti come l’immagine universale di un bambino, il cui corpo giace riverso, senza vita, sulle sponde di un mare che da anni sembra essere diventato il fossato della fortezza Europa, che smette così di essere (se mai lo è stata) l’Europa dei popoli e diventa, drammaticamente, l’Europa dei muri.

Non ce n’è bisogno, perché qui non si tratta più di distinguere tra chi può essere aiutato e chi no, ma di

«accogliere lo straniero con empatia e generosità: dal rifugiato che scappa da una guerra civile, all’immigrato che lascia la propria casa in cerca di una vita migliore».

Parole queste che Barack Obama ha pronunciato in occasione della storica visita del papa negli USA.

Una visita che, non a caso, inizia con Bergoglio che si definisce come

«figlio di una famiglia di emigranti … lieto di essere ospite in questa Nazione, che in gran parte fu edificata da famiglie simili».

Una visita che poi si conclude con le parole pronunciate nel viaggio di ritorno a Roma, ancora più esplicite:

«I muri, tutti, tutti i muri crollano, oggi, domani o dopo 100 anni, ma crollano. Il muro non è una soluzione».

Parole e concetti molto forti, a cui però la politica può e deve dare anche un supporto teorico e argomentativo.

Non solo, sottolineando l’ipocrisia di un mondo e di un’Europa costruiti sui dogmi di un libero mercato, in cui alla libertà assoluta nella circolazione di merci e capitali, poi, fanno da contraltare le quote di contingentamento, i flussi e persino i muri, quando si tratta della libertà di movimento delle persone.

Ma, sopratutto, mostrando come nei fatti sia proprio il cosiddetto libero mercato a produrre, nel pianeta, livelli di sviluppo così diseguali, da trasformare il naturale fenomeno dei flussi migratori in ondate periodiche di migrazioni di massa, che sono l’innaturale complemento di quelle che occasionalmente possono esserci in presenza di eventi catastrofici geologici o meteorologici.

Il citato rapporto Oxfam, in proposito, ci dice innanzi tutto che:

«In Europa ci sono 342 miliardari (con un patrimonio totale di circa 1.340 miliardi di euro) e 123 milioni di persone — quasi un quarto della popolazione — a rischio povertà o esclusione sociale».

Se concentriamo l’obiettivo sulla situazione italiana, l’immagine della torta che è per molto più della metà nelle mani di una minoranza — ossia del quinto più ricco — è eloquente: la maggioranza assoluta della popolazione (60%) si deve accontentare di un pezzettino di torta che corrisponde a meno di un quinto della ricchezza complessiva (17,4%).

Se però poi si passa al raffronto tra il coefficiente di Gini, prima e dopo le politiche fiscali, si comprende alla perfezione la natura profondamente ingiusta degli assetti distributivi nel libero mercato e il ruolo fondamentale che gli enti pubblici, mediante tasse e trasferimenti, possono avere (e, di fatto, in parte già hanno) nel realizzare una società meno diseguale.

In una scala che va da 0 a 100, dove una percentuale del 100% rappresenta la società della diseguaglianza assoluta (e lo zero corrisponderebbe all’eguaglianza perfetta), sia in Europa che in Italia gli equilibri di mercato producono una distribuzione diseguale della ricchezza — in termini di reddito familiare disponibile — che è prossima al 50% e che viene poi corretta in senso più egalitario dalle politiche fiscali dei governi.

Solo che in base agli ultimi dati disponibili l’effetto redistributivo delle politiche fiscali italiane — il tasso di riduzione percentuale del coefficiente di Gini — è già ora inferiore (33,5%) a quello della media UE (39,8%), facendo sì che il nostro Paese si classifichi 22°su 28.

Non dovrebbe essere difficile a questo punto capire a chi giova l’idea dominante della riduzione continua della spesa pubblica e della tassazione. Non dovrebbe essere difficile comprendere che per correggere gli squilibri distributivi che si producono in un’economia di mercato occorrerebbero al contrario forme di tassazione molto progressive (chi più ha, più contribuisce). Le concentrazioni di ricchezza sono infatti tali da permettere, con un’opportuna manovra redistributiva, di creare non solo i fondi per assistere le popolazioni in fuga senza discriminare nessuno, ma — cosa ancora più importante — ci sarebbe anche ampio margine per un intervento pubblico finalizzato allo sviluppo di tutte le aree del pianeta, creando un modello sociale di piena occupazione, di lavoro di qualità (nel rispetto del tempo di vita) e di benessere diffuso.

Di tutto questo, invece, semplicemente non se ne parla. O se se ne parla lo si fa con sprezzanti iperboli aristocratiche tutte tese al mantenimento dello status quo. Perché è esattamente a questo che serve l’ideologia del mercato come misura di tutte le cose (un mercato che, però, come si è visto, non è più libero se riguarda la circolazione delle persone). È esattamente a questo che serve la cosiddetta meritocrazia: a legittimare lo status quo e a promuovere la diseguaglianza strutturale come unico assetto sociale concepibile.

Non è importante discutere di giustizia sociale. Se si parla di redistribuzione lo si fa con riferimento alle quote di migranti, insomma, non certo con riferimento alle grandi ricchezze accumulate, attraverso le generazioni.

Se sei un grande manager e guadagni in un anno più di quello che guadagnano migliaia di tuoi dipendenti è perché te lo meriti. Ed è il mercato che lo ha stabilito.

E così è giusta non solo qualunque differenza di ricchezza, non solo il lusso dei pochi mentre dilaga la miseria, ma persino il merito acquisito a fronte di scandali clamorosi come quello delle auto che alterano i test per avere emissioni compatibili con quelle previste a tutela dell’ambiente (e quindi nell’interesse di tutti e del pianeta stesso).

«Ventotto (e oltre) milioni di euro di pensione totale. Una buonuscita (forse) da 32 milioni di euro. La poltrona, che già occupa, nel consiglio di sorveglianza della squadra di calcio Bayern München. E un’auto Volkswagen a disposizione per gli anni a venire».

Tutto questo a esito ‘premiale’ di uno scandalo epocale per il quale si indaga ora anche per ipotesi di reato di natura fraudolenta.

Perché è questa la doppia morale che si fatica maledettamente a ribaltare: massima protezione per gli interessi dei pochi che si sono accaparrati il grosso della torta della ricchezza planetaria e tutti gli altri, la stragrande maggioranza, in lotta tra loro e in balia dei bassi istinti per contendersi la piccola fetta restante e persino le briciole.

Originally published at www.esseblog.it.

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Giuseppe D'Elia
Lavoro, lavori e coscienza di classe

Giornalista e avvocato. Segue da oltre vent’anni le tematiche politiche legate ai diritti dei lavoratori. Musicista nel poco tempo che resta