Conte ha violato la Costituzione?

Luca Capponi
Le Bistrò
Published in
5 min readMay 3, 2020
Immagine rielaborata da Antonio Tripodo

Durante la gestione dell’emergenza Covid, l’operato del Presidente del Consiglio Conte è stato criticato non solo nel merito ma anche nel modo. Per aver utilizzato come strumento legislativo in tempo di crisi gli ormai noti DPCM, Conte è stato accusato di aver accentrato i poteri su di sé e di aver svilito il ruolo del Parlamento, fino a scavalcare i limiti fissati dalla Costituzione.

La condotta del premier ha fatto infuriare le opposizioni e ha diviso la maggioranza.
Renzi, che fa parte del governo, ha parlato di Costituzione calpestata. Ma se le accuse dei rivali politici potevano apparire pretestuose, il dissenso dichiarato da esponenti del mondo accademico — anche giuristi affermati — restituisce maggior credito al fronte dei critici. La stessa presidente della Corte costituzionale Marta Cartabia, peraltro colpita e guarita dal virus nelle scorse settimane, ha voluto ammonire il Presidente del Consiglio. «La piena attuazione della Costituzione», ha scritto in occasione della relazione annuale sullo stato della giurisprudenza, «richiede un impegno corale, con l’attiva collaborazione di tutte le Istituzioni, compresi Parlamento, Governo, Regioni, Giudici».

Dall’altro lato, anche il partito di chi giustifica il Premier può contare su esponenti autorevoli. Su tutti, il Capo dello Stato. Secondo Mattarella infatti, la Costituzione è stata rispettata e l’intervento del Parlamento può avvenire «anche alla fine di un percorso». Come orientarsi, dunque, tra chi grida all’abuso di potere e chi considera inevitabile l’utilizzo di mezzi straordinari in tempi straordinari?

Occorre premettere che il nostro Paese, a differenza della Francia e della Spagna ad esempio, prevede una legislazione d’emergenza abbastanza scarna. I deputati dell’Assemblea Costituente che tra il 1946 e il 1948 si riunirono per scrivere la carta costituzionale, scelsero di non inserirvi lo stato d’emergenza né le procedure per governarlo, nonostante l’Italia stesse uscendo fuori proprio da un conflitto mondiale e da una guerra civile.

Il motivo di questa scelta fu la paura. Era ancora fresco, tra i padri costituenti, il ricordo della Costituzione di Weimar approvata dalla Germania e di quell’articolo 48 che non imponeva grossi limiti ai poteri del Presidente in condizioni di necessità. Fu proprio quell’articolo che permise a Hitler, che lo applicò pedissequamente, di prendere il potere in modo formalmente legale.

La Costituzione italiana fu quindi strutturata in modo da scongiurare personalismi e concentrazioni del potere nelle mani di uno solo. Da qui la scelta di fare dell’Italia una repubblica parlamentare, in cui cioè il Parlamento, l’organo che rappresenta tutti, deve avere il ruolo principale nella produzione delle leggi. Ma cosa succede quando un’emergenza impone risposte immediate e regole che non possono attendere la laboriosità dei lavori parlamentari per godere di efficacia?

Per far fronte a queste situazioni, la nostra Costituzione prevede due strumenti. Il primo, dato dall’articolo 77, consiste nel decreto-legge: il potere di fare le leggi, «in casi straordinari di necessità e d’urgenza», passa al Governo e il Parlamento interverrà per approvare o meno i decreti solo in un secondo momento. È uno strumento di cui i governi della nostra storia si sono serviti moltissime volte. L’altro strumento, invece, non è mai stato utilizzato. Si tratta di quello enunciato dall’art. 78: «Le Camere deliberano lo stato di guerra e conferiscono al Governo i poteri necessari». Anche qui il Parlamento non è tagliato fuori, perché solo la sua previa autorizzazione consente al Governo di prendere provvedimenti. E non attribuendogli pieni poteri, ma solo quelli «necessari». Col senno del poi, quest’ultimo articolo sarebbe potuto tornare utile durante quest’emergenza, ovviamente facendo attenzione ad attribuire al significato della parola «guerra» un’interpretazione molto estensiva.

La scelta di questo Governo è stata invece quella di legiferare attraverso i decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, i famosi DPCM. Si tratta di fatto di atti amministrativi subordinati alla legge, ovvero possono essere adottati quando la legge conferisce loro potere. L’emergenza totale che vivevamo a cavallo tra febbraio e marzo, con i numeri in continuo aumento e gli ospedali al collasso, può scusare un mancato intervento del Parlamento. L’imperativo era intervenire, ed è naturale che a farlo in quelle situazioni fosse l’organo esecutivo, cioè il Governo.

Foto : CC-BY-NC-SA 3.0 IT / Filippo Attili

Maggiori criticità si sono presentate nell’ammettere che un decreto ministeriale potesse effettivamente imporre le limitazioni che tutti noi stiamo sperimentando. La libertà di circolazione, il diritto al lavoro, il diritto di riunione, il diritto all’iniziativa economica, persino il diritto di culto sono stati fortemente compressi. Sono tutti diritti per cui la Costituzione prevede limitazioni per motivi di sanità o di sicurezza pubblica in nome del diritto alla salute, che è fondamentale e superiore agli altri. Sono però limitazioni ammesse solo purché avvengano mediante la legge (la c.d. riserva di legge) e non con atti, come i DPCM, che non sono esaminati dal Parlamento né sottoposti alla firma del Presidente della Repubblica.

Questi ultimi possono quindi sembrare — anche a ragione, in casi emergenziali come questi — accessori formali. La sostanza è rappresentata dalla necessità, criterio indispensabile che ha richiesto che alcune misure venissero prese e che venissero prese subito. Del resto, l’adesione quasi unanime mostrata dai cittadini è stata forse garanzia ancora più forte del rispetto della democrazia.

Ma con il calare dell’intensità della crisi e il graduale ritorno alla normalità, una Costituzione “sospesa” non è stata più tollerata. L’insurrezione delle opposizioni si è registrata infatti in concomitanza non del primo DPCM, con la crisi al suo picco, ma del secondo, ovvero quando a giudizio di molti, le condizioni consentivano l’utilizzo di altri strumenti.

La frammentazione politica ha prodotto conseguenze immediate. Sono più importanti i decreti di Conte o le ordinanze regionali? È una domanda a cui nessuno sa rispondere e che ha generato esiti quasi paradossali. In Veneto, ad esempio, è possibile raggiungere le seconde case. Le mascherine non sono obbligatorie a livello regionale ma lo sono in alcune regioni. Fino all’attività sportiva: a livello statale concessa “in prossimità”, in alcune regioni vietata e in altre ammessa entro 200 metri da casa. Tutte storture che con l’utilizzo della legge parlamentare o con una delega da parte del Parlamento al Governo sarebbero state fortemente limitate.

A due mesi dall’inizio della crisi, è necessario che la politica trovi un modo diverso per affrontare le sfide che verranno. Basti pensare alla famosa app Immuni. È evidente che non potrà essere un nuovo decreto a disciplinare aspetti delicatissimi legati alla conservazione dei dati, o alle conseguenze per chi non vorrà scaricarla. Dovrà essere una legge parlamentare a farlo, perché solo il Parlamento è il luogo che rappresenta davvero tutti. Altrimenti, passerà il messaggio che la Costituzione non vale più nulla.

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