Il massacro di Emanuele è il nostro capolinea

Antonio Mariani
Le Bistrò
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5 min readMar 28, 2017
Vedo nero, se penso al futuro

“Non c’è speranza, non c’è speranza”
Sono le parole che rimbombano nella mia mente dopo essere venuto a conoscenza dei dettagli della morte di Emanuele, il ventenne massacrato da nove coetanei venerdì sera ad Alatri, un paese in provincia di Frosinone. Una notizia scioccante, dalla brutalità e inumanità uniche, deve far riflettere chiunque ne senta parlare: un ragazzo di venti anni viene massacrato di botte da un branco (non gruppo, perché non merita di essere definito con un’evoluzione diversa da quella del branco) e perde la vita. Ripeto: perde la vita. Non c’è speranza…per il nostro futuro da civili.

Di fatto potrebbe essere una cronaca nera come lo sono tante altre che si leggono sui giornali (sul web, anzi!) quotidianamente, eppure non lo è. Questa è la più becera degenerazione di un pensiero dicotomico che connota il modo di vivere di troppi ragazzi della nostra generazione, incapaci di trovare sfumature in un mondo visto in bianco o in nero, dove l’omicidio non viene percepito, ma confuso con le uccisioni di Call Of Duty o video setacciati da uno schermo. Noto una sempre maggiore difficoltà nel provare empatia per qualcuno o per qualcosa che si legge o si vede, forse perché appare finta, forse perché commerciale, ma sembra sempre lontana da chi la riceve. Anche quando non lo è. Proprio per questo invito ogni lettore a entrare dentro quanto accaduto a Emanuele o, almeno, a provarci.

Due ragazzi vengono allontanati da un locale per aver generato una rissa. All’uscita non si placano gli animi e i due continuano a colpirsi, il primo per difendere la fidanzata “violata” e il secondo per cause ignote. Il secondo non è solo, ma ha un gruppo di 8 amici (branco, ndr) che non esita a scegliere una delle (due) opzioni offerte loro dalla percezione dicotomica della realtà: “guardo” o “difendo mio fratello”- già, perché nel branco i componenti si chiamano fratelli per scelta.
A questo punto tutti aggrediscono Emanuele, iniziandolo a colpire con pugni, calci e sprangate, mentre il suo corpo lo abbandona a ogni colpo ricevuto, perdendo il contatto con un mondo che non avrebbe mai più vissuto, sbranato inesorabilmente dalla violenza dei ragazzi.
Così i 9 ragazzi hanno vinto, eliminando il nemico che stava combattendo contro l’amico. Hanno sconfitto il male per difendere il bene. La vittoria giungeva vuota quando un loro coetaneo giaceva a terra e i soccorsi arrivavano disperati, sperando di compiere un miracolo per far tornare Emanuele ad abbracciare la ragazza che ha difeso e i genitori che lo aspettavano a casa. Purtroppo i medici non ce l’hanno fatta, Emanuele non ce l’ha fatta. Noi, giovani (ormai adulti) di oggi e futuro di questo paese non ce l’abbiamo fatta. Siamo il fallimento peggiore, quello che dimentica, non la storia ma il passato prossimo e commette errori dei quali non ne percepisce la gravità, spianando la strada per accogliere un nuovo errore.

Da questo episodio emergono tre valori: viralità, indifferenza e solitudine.

La viralità è l’ambizione più comune nella società. L’idea di poter essere visti, condivisi e piaciuti da tutti è tanto penetrante quanto malsana; migliaia di persone rischiano la vita per immortalare momenti estremi al solo fine di iniettarli in rete, sperando che le difese immunitarie degli utenti siano vulnerabili e che il materiale “spopoli” (per usare il linguaggio specifico). Questi virus vengono curati e spariscono con la velocità di una stella cadente che abita il cielo per pochi istanti. Terminata la capacità di infettare resta un vuoto incolmabile. Pesa ed emerge la solitudine che non sa essere affrontata, in quanto non ci sono le capacità.
La viralità è la stessa causa che porta al fallimento del motto historia magistra vitae, in quanto riduce un evento dal quale trarre spunti per migliorare a episodi che si esauriscono in pochi giorni, prima di essere sepolti dai tera byte di polvere che il web genera in poche ore. Nascoste e dimenticate. Questo episodio di Alatri avrà la stessa sorte delle altre notizie e sparirà, non lasciando memoria rintracciabile di sé.

Tutto ciò accade nell'indifferenza di chi vive. Emanuele è morto per l’indifferenza di chi ha guardato un branco di esseri (in)umani sbranare un loro coetaneo, nell'indifferenza del branco di fronte al valore della vita e nell'indifferenza di chi farà sciogliere quest’episodio nella schiuma del passato. E non solo, c’è anche l’indifferenza di chi non prova a chiedersi perché sia accaduto ciò e dove sia il problema, ma punta prontamente il dito contro il capro espiatorio, individuabile con lo straniero. Non si presta attenzione alla copiosa quantità di notifiche ricevute sullo smartphone che scorrono governate dall'incosciente dito, mentre un vuoto nell'istante successivo ridesta l’attenzione facendo avvertire il peso di un niente che pesa più della quantità di materiale ricevuto. Una “droga” troppo forte che fa vivere inconsciamente nell'indifferenza di ciò che accade, in cambio di poter vedere, scorrere e commentare.

Il terzo elemento che ritrovo nella storia di Emanuele è la solitudine. La solitudine di un individuo costretto ad affrontare 9 ragazzi, ma anche la solitudine del branco che, scisso, vede 9 individui soli, senza significato né scopo da assegnarsi, quando analizzati al di fuori della massa. C’è anche la solitudine di chi è stato privato per sempre di un affetto e la solitudine di chi non è riuscito a comunicare, se non attraverso la violenza.
Nella violenza c’è la solitudine che descrive questo momento, veloce e appagante del solito vuoto che non viene mai colmato; altra violenza proverà a colmarlo, dando vita a un circolo vizioso dal quale non si esce. La solitudine che non permette di entrare in empatia con un altro essere umano, di capire che c’è un altro uomo in fondo alla valle, con la divisa di un altro colore ma con il tuo stesso identico umore.

Siamo al capolinea, questa volta per davvero. Non c’è razza, non c’è religione o altro che divida, perché noi tutti esseri umani abbiamo perso. Siamo monadi che vivono in un tempo distante dallo spazio, soli, isolati, alienati.
Confusi e persi siamo immersi in un tempo che deve finire, ma non finisce mai di finire.

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Antonio Mariani
Le Bistrò

Un sognatore che non smette mai di sognare. Social Media manager @IQUII Co-fondatore di lebistrò.it e appassionato di sport, basket soprattutto.