Il monaco che cambiò abito

Emanuele Brenna
Le Bistrò
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12 min readSep 23, 2016

Conobbi qualche anno fa un ragazzo.

Un gruppo di amici si trovava nel cortile del mio liceo, in mezzo al campo sportivo, dopo un’assemblea scolastica. Chiacchieravano tranquilli. Ne conoscevo due o tre, di loro, dunque mi avvicinai, li salutai e mi presentai agli altri. Prestai un po’ di attenzione a questo simpatico individuo, un po’ basso, capelli neri, pizzetto e un’aria leggermente persa nel vuoto. Ero incuriosito, ed interessato a venirci a contatto. Io, infatti, già sapevo, bene o male, chi fosse: aveva la fama del gran musicista e, considerando la comunanza di interessi, era da diverso tempo che avrei voluto incontrarlo ed intrattenerci una conversazione. Il mio desiderio venne, con mio grande piacere, esaudito, e la fortuna anche mi assistette, poiché per tornare a casa io e lui salimmo sullo stesso autobus: la situazione perfetta per parlare con serenità e tranquillità.

Ciò che iniziò quel giorno e continuò per i seguenti, caratterizzando il nostro rapporto, fu un’incredibile intesa musicale ed un’attitudine particolare ad affrontare discorsi teorici e filosofici su tutto ciò che riguardasse la musica e l’arte: armonia, ritmo, testi, melodie, influenze. Il mio ed il suo genere preferito erano distanti anni luce, e proprio questo fu il terreno fertile per un arricchimento reciproco: dal jazz al metal, dal pop al progressive rock, uno scambio intensissimo. Lui batterista, io chitarrista.

Mesi dopo, la scuola organizzò un viaggio di un giorno al quale la mia e la sua classe parteciparono. Saliti sul pullman, dopo pochi minuti lui mi chiamò. Al di là dell’intesa, ciò che ha sempre contraddistinto la nostra amicizia è stato l’entusiasmo. Mi alzai, scavalcai un paio di sedili e mi sedetti vicino a lui. Tra le decine di brani che mi propose, ce ne furono un paio di un gruppo con un nome simpatico e molto strano: i Porcupine Tree. Uno di quei pezzi mi fu indifferente, e credo che l’indifferenza sia la reazione peggiore di tutte, in ambito musicale; era un po’ troppo pop, lievemente insapore. Per questo, iniziai ad ascoltare scetticamente il brano successivo: Bonnie the Cat, dall’album The Incident. Potrei dire che sembrava fosse stato composto da altre menti, non dalle stesse: una cascata di illusioni ritmiche, effetti psichedelici, armonie che ti si avvinghiano ai piedi e ti trascinano in un vortice di sensazioni contrastanti, e la voce di questo Steven Wilson che ti sospira nelle orecchie. Dopo avermi confuso e affascinato per tre minuti e venti, il brano decise di darmi il colpo di grazia: due riff di chitarra, uno più ritmico e cattivo dell’altro, in sequenza. Dopo circa sei minuti totali, la musica si interruppe. Solitamente divido tra la musica dimenticabile, quella indimenticabile e quella interessante, e questo pezzo abbracciava le ultime due, cosa che non mi era mai successa prima di allora.

Passò diverso tempo, non ricordo quanto. Ero arrivato al punto di conoscere io meglio di lui quel gruppo, e questo lo riempì di soddisfazione e al tempo stesso lo divertì. Scoprii nel frattempo che era il cantante il principale carburante del gruppo, il Composer/ Song Writer/ Lyrics Writer. Testi splendidi, al punto tale da essere inseriti in una antologia di letteratura inglese, nella sezione degli scrittori moderni. Non solo canta, non solo scrive i testi e la musica, ma suona anche la chitarra: non il migliore chitarrista sulla faccia del pianeta, quello è ovvio, ma i suoi assoli e le sue parti funzionano, il che è addirittura più importante di essere un virtuoso. Come se tutto ciò non bastasse, produce e assiste al missaggio (in parole povere, sistemazione del sound di un disco) di gran parte delle sue creazioni. Non può assolutamente non essere tra i miei artisti preferiti. Tutto ciò che Steven Wilson racconta nei suoi brani è scolpito nella mia memoria, e quando voglio lo rievoco, con sfaccettature e caratteristiche sempre nuove, scoprendo una nota in più, un tocco che magari prima non avevo sentito.

Un potere creativo come il suo non può essere limitato solo ad un gruppo: il suo “passo in avanti” (lui stesso lo chiama così) avviene nel 2008, con l’uscita del suo primo album da solista, Insurgentes. A mio avviso, sebbene l’esperienza con un gruppo sia fondamentale e ricchissima, può costituire una sorta di ostacolo per le idee di un artista, se parliamo di un individuo indipendente e con una ben definita mentalità; un lavoro di gruppo ha un sapore, un’idea totalmente sviluppata da un singolo un altro. Qualora questo singolo avesse un progetto ben scolpito in testa, dovrebbe adattarlo alle esigenze e caratteristiche dei vari componenti, il che potrebbe comportare deviazioni non da poco.

Nel 2009 esce l’ultimo album dei Porcupine Tree, il già citato The Incident, per me (e non per la critica) uno dei più belli. Da quel momento in poi, l’artista britannico è ormai affermato come compositore e conclude, per la disperazione di molti fan, il suo percorso con il gruppo (forse, però, non definitivamente). Inizia dei lavori da solista, alla realizzazione dei quali alcuni tra i migliori musicisti al mondo contribuiranno: Marco Minnemann, Guthrie Govan, Theo Travis (che ai fiati suonò con i King Krimson), Adam Holzman.

Piccola nota: nel libretto di uno dei suoi album, compare il nome di un certo Alan Parsons…

Decisi, dunque, di seguire tutto lo sviluppo di questo magnifico personaggio, secondo me quasi inarrivabile.

Volli, perciò, acquistare il suo primo lavoro. Al negozio di dischi, il proprietario mi informò del fatto che non fosse disponibile, ma che fosse da poco arrivato il suo ultimo album. Ovviamente, presi quello, sebbene da quel momento fui costretto a modificare il mio percorso alla scoperta dell’artista, procedendo a ritroso.

Ero assolutamente all'oscuro di cosa potesse aspettarmi.

Hand. Cannot. Erase.

Sulla copertina, una donna. Sul disco, lei che piange pittura viola. Dietro, i nomi di undici tracce. Prendo con molta delicatezza il CD ed inizio l’ascolto. Apro il libretto per leggere i testi.

È un concept album, ovvero un album le cui tracce sono legate assieme da un concetto, appunto. Ciò che ha ispirato Steven Wilson fu la notizia di cronaca di una ragazza di città sulla ventina trovata morta nel suo appartamento. Fu però constatato che il decesso avvenne tre anni prima del ritrovamento. La ragazza, Joyce Vincent, aveva, precedentemente alla sua morte, tagliato gran parte dei suoi rapporti interpersonali; una volta deceduta, per tre anni nessuno, né un parente né un amico, la cercò. La storia dell’album non segue pedissequamente quella di Joyce; lei è solo un punto di partenza per trattare temi quali la facilità con la quale si può, nonostante la fitta rete di contatti che si intrattengono con i mezzi moderni, divenire invisibili, la necessità di divenirlo, il rapporto connessione-disconnessione.

L’artista ha come concezione quella di non dare indizi e interpretazioni (sia sul titolo dell’album che sulle tracce), per non guidare l’ascoltatore. Adora sentire diversi significati di ciò che scrive, o diverse sensazioni che la sua musica desta.

Non racconterò né descriverò il mio viaggio lungo l’intero album, poiché non vorrei minimamente rovinare la sua fruizione a chi ne sia ora interessato, ma mi soffermerò solamente sulla traccia numero cinque: Routine.

Il quarto pezzo si conclude in maniera abbastanza brusca, dopo avermi coccolato. Non si comprende bene il motivo, fin quando un pianoforte ed una voce, quella di Wilson, non iniziano a materializzarsi. Già la sua genialità si manifesta nel rendere così fruibile all'orecchio una scansione ritmica irregolare come quella di questo intro: 5/4. Solitamente, questi tempi dispari sono abbastanza ostici, ma non in questo caso. Le parole iniziano il loro racconto.

“What do I do with all the children’s clothes
Such tiny things that still smell of them
And the footprints in the hallway
Onto my knees scrub them away”

Pausa, accompagnata da versi di gabbiani e dal suono di onde che si infrangono dolcemente sulla spiaggia. Tutto ciò permette alla mente di viaggiare: sono spettatore di una scena di vita quotidiana, in una casa sul mare, con bambini e genitori. Ed il padre parla. Tutto è così meravigliosamente calmo.

“And how to be of use make the tea and the soup
All of their favorites throw them away
And all their schoolbooks and the running shoes
Washing and cleaning the dirty steel sink”

Un effetto, simile ad un violino, con tantissimo riverbero, entra in scena, rendendo più fumosa ed indefinita l’atmosfera. Tre note, ma perfette. Continua, dunque, la descrizione di usuali e abitudinarie azioni in una casa, penso. Il tema potrebbe essere l’ambiguità della routine, ed il suo significato.

In maniera del tutto inaspettata, una voce femminile prosegue il racconto. Quasi spaventa, per quanto emotiva e perfetta sia la sua apparizione, per non parlare del suo timbro: impeccabile.

“Routine keeps me in line
Helps me pass the time
Concentrate my mind
Helps me to sleep”

Questa angelica apparizione pare indicarmi che quella che io sto seguendo sia la strada giusta. L’aspetto positivo dell’abitudine viene qui trattato, col suo ruolo di passatempo: un’azione iterata, resa più apprezzabile dal fatto che venga ripetuta per una famiglia, estrania in un certo senso dal mondo circostante (questa voce candida è tutto tranne che pragmaticamente inserita in una serie di eventi, o almeno così mi sembra), ma appare una valida motivazione e ragione di vita. La malinconica linea melodica, però, non lascia indisturbati questi pensieri: ripetere ogni giorno le stesse azioni, non voler cambiare, potrebbe denotare una mancanza di coraggio, una staticità di fondo, della quale la malinconia potrebbe appunto essere il sintomo. Sembrano comparire macchie di speranza per un cambiamento. Forse il tema potrebbe proprio essere questo: la lotta tra il cambiamento e la normalità.

“And keep making beds and keep the cat fed
Open the windows let the air in
And keep the house clean and keep the routine
Paintings they make still stuck to the fridge”

È comunque incredibile quanto sia evocativo il brano: sembra di seguire ogni evento, e con un’atmosfera perfetta.

Proprio nel momento in cui sono in casa con la famiglia protagonista, sto osservando i bambini che corrono, la madre che stira, il padre che lava i vestiti, tutto si interrompe. Una voce bianca, quella di un membro di un coro, irrompe, e conferisce al brano, in questo istante, una nota di evanescenza preminente rispetto alla nitidezza con cui tutto si è svolto fino ad ora. Non ho la più pallida idea di dove tutto possa andare a finire, e come si evolverà. Potrei aver sbagliato tutto, potrebbe cambiare tutto quanto.

Pausa.

Una chitarra arpeggia accordi carichi di tensione, colorando di assurdo la situazione. Queste armonie iniziano a smantellare tutto ciò che avevo costruito fino a quel momento: ora il dubbio è la colonna portante, anche con sfumature di terrore e ansia. Aspetto, per capire.

Il basso riprende il tema del brano, introducendo un assolo di chitarra da brividi. Ora, la speranza sembra scontrarsi, ciclicamente, con la rassegnazione; la malinconia resta la costante. Raffiche dell’una e dell’altra danzano in questo mare di sensazioni. Prima vince la prima, poi la seconda, e io non so per chi tifare. Il solo del chitarrista, nel frattempo, è di un’emotività tale da portare le mie lacrime esattamente dietro le palpebre, ed io sono confuso ed estasiato.

Altro cambio. Il solo termina, di nuovo piano e voce; questa volta, però, quella femminile.

“Keep cleaning keep ironing
Cooking their meals on the stainless steel hob
Keep washing keep scrubbing
Long until the dark comes to bruise the sky
Deep in the debt to night”

Questa strofa sembra porre fine ai dubbi: lei, lucidamente, si arrende all’abitudine. La sue note mi appaiono cariche di saggezza ed esperienza, quasi a rappresentare una donna che, dopo questi drammi esistenziali, li conclude sapendo di non avere alternative. Da questo momento, si manifesta l’incredibile umanità di questo personaggio: l’armonia del piano, protagonista indiscusso ora, cambia nuovamente, divenendo ancora carica di tensione e lasciando presagire qualcosa, un’imminente esplosione. Batteria e chitarra elettrica entrano in scena, come un uragano che spazza via, ancora una volta, le costruzioni che il brano aveva progettato. La rassegnazione della donna non può avvenire con tranquillità; tutta la tensione ha sfogo in questi minuti conclusivi, in cui lei urla il ritornello, come se dovesse convincersene, come se il dubbio ora facesse più male di un compromesso, quello di accettare la sua vita. Il climax, ora, sta per concludersi.

Un grido.

Improvvisa e agognata pace. Armonia liberatoria, e quiete dopo la tempesta.

“The most beautiful morning forever
Like the ones from far off, far off away
With the hum of the bees in the jasmine sway
Don’t ever let go
Try to let go
Don’t ever let go
Try to let go
Don’t ever…”

Gli ultimi versi sono cantati da lui e lei insieme: una sorta di riconciliazione comune e punto di arrivo, dopo che entrambi si erano scambiati opinioni e sofferenze. Padre e madre sanno, ora, che non è l’accettazione di abitudine o cambiamento la soluzione, ma la consapevolezza del dubbio, attraverso la quale si può giungere ad una sorta di via di mezzo tra i due temi portanti del brano. “Non lasciarla mai andare, provare a lasciarla andare…”. La canzone stessa si conclude con un inizio. Un’esperienza senza eguali.

Vissi così, al primo ascolto, il quinto brano dell’ultimo album di Steven Wilson, e diedi questa interpretazione; in fin dei conti, fu anche filtrata da quelli che erano i miei pensieri in quel periodo. I dischi, a mio parere, contengono non solo materiale interessante dal punto di vista musicale, ma sono una fondamentale testimonianza dei periodi di vita che si passano, e possono rievocarli con una facilità e precisione impressionanti. Mi sono reso conto, tempo dopo, di come la mia lettura del pezzo fosse lontana anni luce da ciò che l’artista era andato a descrivere.

Settembre 2015, Via della Conciliazione. Io e due miei amici, tra cui il ragazzo di cui sopra ho parlato, ci troviamo all'ingresso dell’Auditorium, aspettando che le porte vengano aperte per l’inizio del concerto dell’artista inglese: uno degli eventi che ho atteso con più ansia. Abbiamo i biglietti per la terza fila, e sono le 8.30. Un’ora e salirà sul palco.

Verso le 9.15, le luci iniziano ad abbassarsi e cala, dietro il palco, uno schermo. Iniziano ad essere riprodotte delle immagini: palazzi, strade, una donna. Aumentano di volume gli effetti sonori; tutti si siedono.

Entra il tastierista, ed inizia a suonare l’intro del disco. Dietro di lui, batterista, bassista, chitarrista. Come per ogni preparazione ad un evento importante, il battito aumenta, veramente a dismisura, credo a tutti i presenti in sala. Le note dell’incipit dell’album volgono alla fine, mentre immagini continuano a susseguirsi sullo schermo, dietro i musicisti. L’intro termina.

Sale, ora, di volume l’organo che caratterizza i primi secondi del secondo brano, e l’attesa è finita: Wilson deve salire sul palco. In lontananza, all'angolo dello stage, appaiono i suoi capelli. Scalzo, pochi attimi dopo, si mostra al pubblico con tutto quell'orgoglio di chi gira il mondo accompagnato dalla sua musica, ed il suo scopo è suonarla di fronte a persone che vogliono sentirla. Io, in quel momento, non ho la possibilità di muovermi, tanta è la gloria e la meraviglia: un individuo che si sostanzia delle sue creazioni. Inizia a suonare, ed un muro di suono si abbatte sulla folla. Io continuo a stare fermo.

Finisce il primo pezzo, e non batto nemmeno le mani. Inizio a riprendere controllo verso il terzo. Poi il quarto. Arriva, atteso, il quinto.

Il cantautore lo introduce, raccontando l’aneddoto di quando lo propose al produttore, che gli fece notare come quel brano fosse tra i più tristi che avesse mai sentito. Non riesco a comprendere: il tema mi sembrava delicato, importante, ma non così deprimente. Termina il racconto, con le parole “This song is called Routine”. Le luci si abbassano, ed è ora penombra: illumina solo lo schermo.

Inizia il pianoforte e la voce, e dietro ai musicisti viene proiettata una casa. Una casa, apparentemente vuota; fuori, una donna guarda il mare. La donna è gracile, mora di capelli, pallida e con gli occhi scavati, tristi, quasi vuoti, e con il trucco sbafato sulla parte superiore degli zigomi. Lava i piatti, e mette a posto la cucina; la tavola è apparecchiata per una colazione, con quattro coperti. Passeggia, nell'ingresso, e si ferma accanto ad una giacca da uomo, riposta su un appendiabiti; la annusa. “Forse” io penso “forse ho sbagliato tutto”.

Lei continua a fare i letti, continua a dar da mangiare al gatto, apre le finestre e lascia entrare l’aria. Pulisce la casa, stira, cucina il pranzo. Ci sono, di nuovo, quattro coperti. Lei mangia, sola. Finisce di mangiare, sparecchia, mette in ordine la posta. Periodicamente, lei si irrigidisce e si blocca: guarda, immobile, i disegni sul muro, oppure i maglioni dei bambini. È evidente, avevo sbagliato.

Arrivano le nuvole ora, insieme all'incupirsi delle armonie. Tensione, curiosità e meraviglia prendono il sopravvento: tutti, in sala, sanno che qualcosa è successo, ma è troppo perfetta, la scena, perché qualcuno possa tra il pubblico tirare a indovinare. In quel momento io, del pubblico, non sentivo nemmeno la presenza; mi sembrava stessero suonando solo per me.

Le scene divengono sempre più strazianti. Lei incomincia a realizzare l’insensatezza delle sue azioni: piange sangue sui piatti che lava, dopo l’ennesimo pranzo. Capisce. Esplode. Rifiuta tutto ciò che ha fatto fino a quel momento: getta i piatti per terra, strappa le lettere, lancia i giochi dei bambini, straccia i maglioni ripiegati prima con cura. Sto solo aspettando che mi venga detto cosa sia successo. Lei continua, e nella sua ira fa cadere le riviste riposte sul mobile, vicino ai cestini della merenda dei figli: su una è scritto “Padre e due figli uccisi in una sparatoria a scuola”. La madre corre fuori, si inginocchia al cospetto del mondo.

Grida.

Pausa. Lei è alla finestra, guarda fuori: “Non lasciar mai andare il ricordo/ prova a lasciarlo andare/ non lasciar mai andare…”

Immobile, e con le guance bagnate da calde lacrime, fisso Steven Wilson in piedi di fronte a me, che ringrazia il pubblico degli applausi. Continuo a rimanere immobile, esterrefatto. Una mano mi scuote, io mi giro: quel ragazzo, che mi aveva fatto conoscere la musica di chi in quel momento stava suonando per noi, mi guardava, al settimo cielo. Ero scosso, traumatizzato, depresso, malinconico, felice, innamorato, distrutto. Non potevo dire nulla, e rimasi così, incredulo.

Due ore dopo, il concerto si conclude. Lo avremmo aspettato fino alle due di notte, fuori dal backstage, per una foto e un autografo, ma lui riuscì ad evitarci. Gli altri musicisti no, ma lui sì. Mi domando ancora che cosa avrebbe potuto pensare, se gli avessi raccontato la mia prima interpretazione.

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