Io e loro tre sul “palco” degli Avenged Sevenfold

Storia di tre monologhi serali in un pub

Emanuele Brenna
9 min readNov 18, 2016

Eccomi qua, finalmente. La giornata è finita da ormai alcune ore; sono le dieci meno un quarto, e il sole da un po’ è nascosto alla vista del nostro emisfero, in un autunno timido, che si manifesta a giorni alterni. Sono seduto in questo locale, e pochi minuti fa la cameriera mi ha portato una birra; il rumore di stoviglie che cozzano, le chiacchiere dei clienti ed il fumo delle sigarette rendono la mia pinta molto più gustosa. Non sono riuscito a trovare un luogo più adatto per riflettere su un argomento cruciale, ma che la troppa serietà potrebbe trattare non nel modo più appropriato. Un tema “da commensali”, un tema da più opinioni espresse senza peli sulla lingua e col cuore in mano.

Quando sei stato fan di un gruppo, e quel gruppo fa uscire dopo diverso tempo un album, il tuo mondo cambia un minimo. I suoi membri hanno composto la colonna sonora di certi periodi della tua vita, e sempre (almeno spero) determinati loro brani avranno il sacro e misterioso ruolo, da te imposto, di evocarti certi giorni, certe sensazioni. Basta prendere, con delicatezza, un album del 2009, inserirlo nel lettore ed aspettare pochi secondi: le prime note, il modo in cui il disco è stato registrato, le parole, e sono al primo anno di liceo, con tutte le scarpe, senza aver compiuto alcuno sforzo mnemonico. Non ricordo eventi in particolare, ma sensazioni. Ci sono studi che hanno addirittura rivelato come la memoria musicale non sia danneggiata in maniera imponente nemmeno da una malattia come l’Alzheimer. Leggermente poetico.

Quando grava un peso così imponente sulle spalle dei componenti del gruppo, le scelte sono due: odiare ogni singola produzione successiva perché, per forza di cose, non così di spessore come le precedenti (per il semplice fatto che ciò che appartiene al passato non possa essere creato nuovamente), oppure trattare tutta la discografia successiva un po’ come un tenera e dolce creatura, figlia di quella precedente, e mostrarsi esageratamente affettuosi nei suoi confronti… magari lasciandosi scappare un nostalgico “ma come assomigli a tuo padre”.

Oggi, 28 ottobre 2016, gli Avenged Sevenfold pubblicano “The Stage”, pochi giorni dopo aver postato su youtube il singolo omonimo estratto dall’album, senza un pizzico di preavviso. L’ho trovato scorretto: ho bisogno di metabolizzare, di riflettere, di aspettarmi o non aspettarmi qualcosa. Non potete farmi questo: sono un ragazzo che a vent’anni ha già le sue teorie esistenzialiste sul grigiume della vita, non reggo troppe sensazioni ed emozioni, non reggo troppi ricordi.

Dopo lo shock iniziale, ho maturato pian piano diverse opinioni prima sul singolo, poi sull’album intero.

Ognuna di loro ha una voce, e la loro figura si materializza pian piano sulle sedie intorno al mio tavolo, offrendo piacevole e spiacevole compagnia.

Qui, alla mia sinistra, parla una bambina di 10 anni entusiasta, con i capelli rossi, allegra e pimpante. Beve del succo di frutta, ovviamente. Poi, alla mia destra, un vecchiaccio: pochi e lunghi capelli, tirato a lucido, ma sporco ad una vista più attenta. Assenzio per lui. Dritto, di fronte a me, un giovane distinto, vestito bene, capelli in ordine e sguardo deciso. Cuba libre. E poi io, ma per ora non conto.

Esordisce il vecchio, come previsto.

Che album mediocre. Questa boy band del metal ha ormai fatto il suo corso. Non se ne salva uno, tra questi ragazzini. Forse il chitarrista solista, Synyster Gates, ma non posso pensare al suo nome d’arte che mi viene un aneurisma. Il singolo è monotono e già sentito, e per tutto l’album si ripercorrono melodie, armonie e arrangiamenti ampiamente noti. Ciò che più mi ha turbato è stata la voce del cantante, Matthew Shadows, già dal primo pezzo: imprecisa, stanca e dal timbro ormai sgradevole. Il video di “The Stage” ricicla temi già abbondantemente affrontati dai cinque, e sinceramente questa volta nulla ho notato di diverso né di più interessante rispetto alle precedenti: il pubblico di uno spettacolo di marionette paga il biglietto al botteghino, e viene lasciato intendere che i cassieri siano gli A7X. Si apre il sipario, e scene di guerra, di crudeltà, dall’inizio della storia dell’umanità fino ad oggi vengono rappresentate da burattini (mi permetterei di aggiungere che il tutto si svolge in una atmosfera piuttosto ridicola). Il pubblico, per ogni massacro o violenza, si diverte, lasciandosi scappare risatine; il luogo comune della malvagità del mondo mi ha lasciato un senso di inutilità addosso che mi ha rovinato la giornata. Per 6 minuti di brano non succede altro, fino a quando la scenografia sul palco (traduzione di “The Stage”) non mostra gli stessi spettatori, seduti su delle sedie e con i fili che pendono sulle loro teste — forse questa è l’unica nota originale. La telecamera riprende, andando verso l’alto, i fili per raggiungere i marionettisti: Putin e la Merkel ben riconoscibili tra gli altri, si evince che i presidenti delle potenze mondiali controllino i nostri destini. Da quanto non sentivo parlare degli Illuminati. Ma qui non è finita: si vede chiaramente come anch’essi siano marionette. Da chi saranno comandati? La risposta è piuttosto ovvia, per chi conosce il gusto gotico del gruppo: la morte. Il video finisce con un ritorno all’origine: un uomo primitivo resta solo sul palco.

In fin dei conti, questo è ciò che ci si può aspettare da un gruppo del genere: non possono esserci pretese, perché non ci sono basi per pretendere un album di tutto rispetto. Concetti banali e scontati, perpetrati tra l’altro da “giovincelli” di 40 anni quasi: mi rifiuto di farmi insegnare qualcosa da questi cinque.

La bambina, che fino a quel momento aveva giocato col brick in cartone del succo, e che quindi non aveva ascoltato una parola fino a quel momento, sfrutta il secondo di silenzio lasciato dal vecchio per intromettersi.

Erano quasi quattro anni che aspettavo, e sinceramente mi ero stancata di abum ottenuti dalla riedizione dei precedenti oppure ottenuti dalle colonne sonore di videogiochi. La distanza tra quest’album e il precedente è abissale. Ero rimasta male, nel 2013, quando uscì “Hail to the King”: è un disco godibile, che io personalmente ho ascoltato parecchio, ma era lontano da quello stile personale che gli A7X avevano creato e ottenuto con “Nightmare”, un album ineguagliabile. Ora, sto assistendo ad una sorta di ritorno al sound caratteristico, con un prodotto che solo loro possono mettere in mercato. La prima traccia è piena di variazioni, e con un riff pieno, ricco e molto potente. Adoro il lavoro di Gates, con fraseggi unici nel genere ed un suono pazzesco; in concerto, l’outro del pezzo viene suonato con una acustica in solitaria. Magico. Il secondo brano è a tratti sotto tono, ma con un ritornello dal tema di impatto e molto orecchiabile, seguito immediatamente da un riff degno dei tempi d’oro del metal sevenfoldiano. “Sunny Disposition” mi ha lasciato invece a bocca asciutta: la sua parte orchestrale lascia intendere un desiderio di ritorno a brani quali “A Little Piece of Heaven”, capolavoro del 2007, e riuscito molto meglio. Il solo, inoltre, suona superfluo. La quarta traccia è un vero piacere alle orecchie di una fan: ritmi incalzanti e ritmiche di chitarra potenti, un ritornello che entra nel cervello a spallate. Questo sarà il classico “brano pogo”. Mi ha fatto impazzire come accanto alla voce ci fossero le due chitarre armonizzate: puro stile Avenged. La tecnica e l’abilità dei componenti emerge prepotentemente, ed è magnifico quando si intrecciano: in “Creating God”, brano che tratta la sottomissione dell’umanità alla tecnologia, Wackerman, neo batterista, compie un lavoro sopraffino sotto la gloriosa esecuzione di Gates. A solo terminato, ritorna la strofa, in cui il nuovo membro mostra incredibile maestria nel groove. Fino ad ora, giusto qualche appunto; ma l’album è fantastico, e sono grata del loro ritorno. Sono giunta ad Angels: ciò che colpisce di più sono le tinte apocalittiche e fosche di questi 5 minuti. Ora, però, la voce di Shadows mostra i suoi limiti, poiché il tema è meraviglioso e potente, ma non ho saputo trattenermi dal pensare cosa sarebbe successo se al posto suo ci fosse stata una voce più calda e potente. Apre le sue porte “Simulation”, un tripudio di suoni psichedelici e dinamiche. Mi ha lasciato un po’ disorientata la sua eccessiva sperimentazione, i passaggi da ritornelli “convulsivi” e frenetici a sezioni accompagnate da voci e rumori, con una strofa che alterna ritmi pari a dispari. Avrei qualcosa da ridire a proposito, ma passiamo oltre. Ora, i guai: “Higher”. La voce è da buttare, il riff alla strofa quasi incomprensibile e la struttura troppo confusa. Il cantato in sé sarebbe toccante, ma il brano confonde ciò che potrebbe piacere. L’album si conclude con tre tracce: “Roman Sky”, una sorta di ballad molto emozionante, “Fermi Paradox”, che non ho apprezzato, e “Exist”. Quest’ultimo brano dura 15 minuti, e tutto lascia presagire un pezzo stile “Save Me” dell’album capolavoro “Nightmare”.

A questo punto il ragazzo la interrompe. Era visibilmente impaziente di parlare da un po’, e muoveva, agitato, la gamba sinistra. Aveva finito l’ultimo sorso del cocktail.

Se permetti — disse — vorrei esprimermi io a riguardo, perché questo pezzo non ha fatto altro che confermare l’ipotesi che in me è maturata lungo l’ascolto di tutto l’album. Sono d’accordo sulle melodie, che sono indubbiamente ben riuscite. Sono d’accordo sulle ritmiche. Soprattutto, però, sono d’accordo sul cantato, al quale è successo qualcosa. Per me, questo album avrebbero dovuto strutturarlo e pensarlo come strumentale; è questo, dunque, il motivo per cui voglio parlare di “Exist”. Penso che sia un pezzo di 6 minuti e 50, non di quindici. I restanti 8 (e spicci) potrebbero sparire per me. L’intro di questo brano ha un tocco elettronico, innovativo per il gruppo (e, lungo l’album, questa caratteristica emerge ogni tanto). L’armonia iniziale è un po’ banale, ma abbastanza ben articolata. L’esplosione è in pieno stile Avenged Sevenfold. Dopo due minuti e venti, la rivelazione: un riff “scuoti testa” accompagnato da una batteria euforica. Questa sezione evolve da folle a epica in cinque secondi netti. Pazzesco. Le armonie fungono da passaggio, poiché il riff torna più potente di prima dopo una ventina di secondi: qui la batteria, più che mantenere ritmi incalzanti, enfatizza l’impatto della ritmica con una cattiveria degna di nota. L’evoluzione non è finita, poiché una sezione orchestrale e di effettistica si intromette, e a questo punto, per me, è genio. Il solo di Brian Haner (non fatemelo chiamare col suo nome d’arte, vi prego) crea un crescendo d’ansia che poi va ad esplodere ed acquietarsi. A questo punto, il brano assume tinte psichedeliche, ed il sound della chitarra diviene vagamente pink floydiano, per poi spegnersi e porre fine a quella che è la parte migliore del disco. Se posso essere sincero, del loro look e del loro goticismo a me interessa veramente poco, anzi lo capisco: è un marchio di fabbrica, è una caratteristica che li etichetta e fa vendere loro qualche disco in più (e, per me, questo non è reato). Il fatto che l’album abbia solo delle sezioni innovative e interessanti lascia un po’ l’amaro in bocca, ma mostra come di fatto questo sia un gruppo con, almeno in teoria, le palle. Il resto di “The Stage” è ciò che si può attendere, a volte di più e a vote di meno, dagli Avenged Sevenfold per come la loro carriera si è evoluta. Per il resto, la musica che producono non è affatto male ed è unica nel loro genere, per quanto possa piacere o non piacere: è molto più interessante di molte cose che si ascoltano in giro.

Nemmeno il tempo di finire il discorso che il vecchio inorridisce e prova a sbranarlo, la bambina comincia ad urlare senza alcun apparente motivo e io lascio a loro il conto da pagare, alzandomi ed andandomene via.

Fuori dal locale, mentre cammino verso casa, penso che potrei dare parziale ragione a tutti, che si trasforma in ragione totale nel momento in cui esprimo una fra queste opinioni a qualcuno. In fondo, un’opinione è tale quando esce dalla bocca e resta nell’aria, in attesa che qualcuno la raccolga e la rilanci, diversa da prima.

Nella mia testa sono tutte valide, quelle espresse dai miei personaggi, ma una è più bella delle altre, e una più brutta. Ma questa non è una mia opinione, è una mia sensazione, e quindi è inutile lasciarla per aria.

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