Mio fratello è figlio unico

“Mio fratello è figlio unico, deriso,
declassato frustrato dimagrito”

Antonio Tripodo
Le Bistrò
6 min readOct 26, 2016

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Tutti possediamo un romanzo calcistico personale: in esso è riservato uno spazio speciale per i nostri totem e ciò che gli associamo splende di innaturale luce riflessa. Spesso però le storie non seguono le nostre trame e tanto meno ci regalano un lieto fine.
Per chi ama a dismisura questo gioco idealizzare diventa una necessità, ma finisce col bruciare assieme alle sue chimere.
Rodrigo Izecson dos Santos Leite — più familiarmente, Digão — è proprio di quelle storie che poco piacciono ai lettori, di un personaggio che non appaga le loro fantasie.

Fratello minore di tre anni del più celebre Kakà — che di presentazioni non ha certo bisogno — il Milan lo acquista un anno dopo Ricardo, verosimilmente come contentino per la famiglia del calciatore: anche lui dal São Paulo, dove entrambi avevano mosso i primi passi.
Il giovane stopper viene tesserato dalla Sampdoria in quanto extracomunitario (i rossoneri avevano già raggiunto il limite consentito) prima di approdare definitivamente a Milano, ma dovrà aspettare altri tre anni e un prestito biennale tra i cadetti del Rimini prima di collezionare la sua prima (e unica) presenza in A con il Diavolo.

Nell’estate 2004 Kakà non è ancora l’asso pigliatutto delle notti europee ma a ventidue anni è già campione d’Italia e si è portato in doppia cifra alla stagione d’esordio: è sufficiente questo perché i tifosi rossoneri vedano nell’acquisto del fratellino una prospettiva comune.

Sono finiti da poco gli anni novanta, un decennio che ha già regalato magnifici dualismi di famiglia:

  • I gemelli Franck e Ronald de Boer, bandiere indiscusse dell’Ajax di Louis van Gaal, plurivincitore in Olanda e campione d’Europa (95–96), poi ancora compagni in Spagna (Barcellona), Scozia (Glasgow Rangers) e Qatar (Al-Rayyan e Al-Shamal).
  • I fratelli Gary e Phil Neville, una vita insieme nel Manchester United (1991–2005) e assoluti protagonisti del treble 98–99 targato Sir Alex Ferguson.
  • Franco e Beppe Baresi, capitani-avversari delle due sponde di Milano nelle sfide degli anni ottanta. Franco, capace di sollevare alla soglia dei trentaquattro la terza Coppa dei Campioni in carriera (1993–1994).

Persino la fisionomia, simile a quella del gioiello verde oro, trascina i tifosi in un turbine di aspettative. La postura, il fisico magro e slanciato, la leggera dissimmetria dello sguardo e quel timido accenno di scucchia che non lasciano grande spazio alle preoccupazioni.

La kalokagathìa o physique du rôle che si dica, è una prerogativa importante anche per un atleta, ma per quanto lampante la somiglianza al fratello l’aspetto di Rodrigo tradisce qualche indizio significativo.

Il sorriso, malinconico e meno lineare, specchio della sua adolescenziale insicurezza. L’accentuato e antiestetico acne sugli zigomi. Una presenza che fatica a rendersi imponente. Segnali a cui il popolo rossonero preferisce a priori non dare troppa importanza.
Qualche giornale scriverà pagine sulle sue doti, mettendo in luce alcune prestazioni con la Primavera in cui risulta addirittura il migliore in campo.
Tuttavia dopo, il nulla.

Seguiranno cinque anni di soli prestiti. Prima in Belgio allo Standard Liegi, poi di nuovo in Italia al Lecce e dopo metà stagione al Crotone: esperienze singolari, in cui raccoglie non più di quattro presenze ufficiali.
Troverà la sua parentesi più felice ancora in prestito, nella modesta compagine del Futebol Clube de Penafiel con dieci presenze all’attivo nella Liga portoghese.
Si trasferirà un anno dopo alla corte dei New York Red Bulls, stavolta a titolo definitivo. Negli USA non giocherà nemmeno una partita della regular season e questo metterà il punto sulla sua carriera da professionista.

Il Simbolismo diventa un fattore determinante nella vita calcistica di Digão, in un sadico parallelo con le fortune di Kakà.
Acquistato l’anno successivo al fratello, vive alla sua ombra gli anni della formazione per poi finire nel dimenticatoio della Serie B. Solo dopo la vittoria in Champions League (da capocannoniere) ed essere stato insignito del Pallone d’Oro, Ricardo lo fa tornare alla base senza troppi convenevoli.
Il ritorno in B con la maglia del Lecce coincide col trasferimento milionario di Kakà al Real Madrid, mentre il non-esordio in MLS segna il ritorno a Milano per l’uno e la fine della carriera(?) per l’altro.

L’esperienza di Rodrigo in Serie A non è un ricordo piacevole per il tifo rossonero: molti oggi associano il suo acquisto a quello che fu anni dopo di Guillermo Burdisso (fratello di Nicolas) da parte della Roma o di Juan Pastore (fratello del Flaco Javier) per il Palermo.
Esempi di raccomandazione o mancanza di meritocrazia direbbero, alcuni addirittura ricostruendo dinamiche di stampo mafioso da parte delle famiglie o dei procuratori.
Non che Digão si sottraesse ai pettegolezzi. Nell’estate 2007 rilasciava questa intervista:

«Essere fratello di Kakà mi ha aperto molte porte, non posso essere ipocrita e negarlo […] Ma in campo chi va sono io, il Milan ha bisogno di un rinnovamento in difesa ed io sono pronto. Anche se so che non sempre giocherò dal primo minuto.»

Parole di chi nonostante i limiti non viene meno per dedizione. E chiede che i tifosi prima di criticare il film, possano almeno vederlo.
Nel calcio moderno non certo un particolare, che più di una volta sa rendere gli animi più indulgenti. Come si spiega allora l’antipatia verso un ragazzo ambizioso, per quanto agevolato da fattori esogeni?

Nel romanzo calcistico dei cuori rossoneri la condanna di Rodrigo è di essere dannatamente normale. Una storia come tante, di chi non riesce, ma troppo legata alle giocate di chi ti è consanguineo per non dimostrarti all’altezza.
L’aiutino sarebbe passato in secondo piano, e chiunque ne parlerebbe piuttosto come la più naturale conclusione di chi il gene lo ha dentro le corde. Un fatto di DNA, una dinastia necessariamente destinata a perpetuarsi: quello che oggi sembrano i Maldini e i Mazzola, e che forse saranno i Simeone e gli Zidane.

Per questo Digão rimarrà figlio unico: perchè incapace di adeguarsi alla moda di famiglia. Di chi ha preferito essergli procuratore piuttosto che padre.
E rifiutato per la sua semplicità, deriso declassato frustrato dimagrito il mondo del pallone lo ricorda così, ma di certo non lo rimpiange.



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Antonio Tripodo
Le Bistrò

Uno, nessuno, centomila. 26 anni, studente a tempo pieno, fumettaro a tempo perso, scrittore a tempo variabile. Credo nell’ironia, amo il futból e i pepperones.