Qualche chilo in meno

Diario e impressioni di una data italiana dei Cure

Antonio Tripodo
Le Bistrò
9 min readNov 4, 2016

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30 ottobre.

Raggiungo il piazzale del PalaEur poco dopo le cinque, a piedi, dopo aver lasciato la macchina su viale Europa. Un po’ lontano dallo stadio, ma da tipo scrupoloso quale sono, cammino pur di non lasciarla preda a qualche furfantello — letteralmente — della domenica.
Il pomeriggio non è iniziato al meglio: ho mollato a metà del secondo tempo uno squallido pareggio in trasferta della mia squadra, passando il successivo quarto d’ora in attesa di aggiornamenti. Nulla di fatto.
Il calcio ha soppresso in me qualsiasi proposito di partire una buona mezz’ora prima e manco a dirlo, un marasma di fanatici è già lì davanti. L’Odissea può avere inizio.

Il piazzale, quando non c’è fila.

Alzo lo sguardo — et voilà — eccoli uno dietro l’altro dal girone degli Sciuponi: chi alla New Wave ha dedicato non solo tutti gli averi, ma le energie di un’esistenza, affogando oggi nella nostalgia più spietata (e teatrale).
Padri di famiglia guidano la fila, addobbati di pelli, borchie e abbondante lacca nei capelli, mentre immagino i pupi ingiustamente privati della figura maschile.
Alla tragicomica sagra del cosplay domina il nero, in tutte le sue sfumature, e in quello scenario infernale Robert Smith non mi sembra da meno di Marlon Brando: i suoi figli sono tutti riuniti qui per l’occasione, da ogni angolo del pianeta. Nulla potrebbe rompere la magia di questo momento. Se non il ‘capo, te devi da spostà!’ prontamente esclamato da uno di loro, che mi riporta piedi per terra, alla realtà.
Durante l’attesa vengo avvicinato da un individuo di dubbia occupazione e provenienza, che si presenta a me in qualità di addetto alle coreografie. Stringe in mano un vistoso mazzetto di braccialetti in vari colori e fa per darmene uno, per un contributo ‘fluorescente’ del pubblico previsto a metà serata. «E’ un’iniziativa dello staff», sostiene lui.
Ne pesco uno per togliermelo di torno, e solo a quel punto si sente di precisare «Certo, la partecipazione prevederebbe una piccola offerta simbolica…». La mia seguente occhiataccia è un sufficiente invito a farsi da parte.

A sinistra, un tipico papà Post-Punk. A destra, Caròn Dimonio batte col remo i dannati rimasti prigionieri degli anni ‘80.

Dopo un’oretta di indugi, finalmente si entra e prendo posto nella zona parterre a una decina di metri dal palco. Solo allora il mio pensiero va alle successive sei ore che mi attendono, in lotta tra i dolori alle gambe e i bisogni fisiologici. Perchè la sofferenza è uno stato mentale sempreverde.
Sale per esibirsi una band che accompagnerà i Cure per tutta la tournée di quest’anno: i The Twilight Sad, per noi dalla Scozia.
Dagli strumenti è chiara l’affinità di genere con l’evento. Meno, le ragioni lessicali del nome. Ancora meno, le scelte in fatto di look dei componenti, di cui noto la straordinaria capacità di non azzeccare nulla tra loro.
La voce: capello scuro tirato tutto su un lato e messo a mantecare nella gelatina, outfit total black e pantaloni stretti, l’anima indie del quintetto. Il chitarrista: cappotto lungo in pelle e rasatura skin con barbone rosso d’assalto, appena ripescato dai meandri più goth di Glasgow. Il bassista: zuccotto, maglione, barba incolta, sguardo assente — presunta — carta d’identità sottratta con la forza a The Edge. Il batterista: con una metafora, come se Jabba the Hutt entrasse a suonare nei Cantina Band. Il tastierista: gilet scuro aperto a V, sottostante camicia bianca chiusa a tutto collo, capello biondo a caschetto con la riga in mezzeria — né più, né meno — la versione ossigenata di Dorian Gray. Man of the match.
Scopro in seguito che i nostri eroi sono in attività già una decina di anni con quattro album all’attivo, ma senza indagare sulle ragioni che spingono a chiamarli ancora come gruppo spalla.
Come da programma, cominciano a darci dentro intorno alle sette, per poi averne lungo tutti i successivi tre quarti d’ora.
Il loro sound cupo, con evidenti influenze di memoria Darkwave, risveglia in me le incertezze di poche settimane prima, quando mi recavo in un noto quartiere a est di Roma per riscuotere il mio biglietto. Portavo in contanti una somma a tre cifre, dopo una lunga e sofferta transazione col bagarinaggio più indecoroso, motivo in me di forti crisi di personalità.
Ripensandoci, ho ancora sprazzi di quella sensazione borderline, tra il sentirmi moralmente a terra ma ugualmente soddisfatto, col tagliando in mano e le tasche vuote.
Gli amici delle highlands chiudono la performance e noi ringraziamo caldamente.

I The Twilight Sad e alcuni rassicuranti artworks di loro produzione.

Dopo una iniziale frazione di panico dovuta a fraintendimenti di orario

«Ma come alle nove?! Sono le otto meno un quarto e questi hanno appena finito di suonare!! »

l’attesa finisce e i nostri ragazzacci prendono posto davanti agli strumenti, accompagnati da un sonoro applauso a luci spente.
Robert è visibilmente compiaciuto per la folla nutrita e si lascia andare a qualche paracul… ringraziamento in italiano per scaldare ulteriormente gli animi.

Il mappario dei settori.

Butto a quel punto l’occhio sugli spalti dove, dopo un iniziale ritardo, la gente aveva effettivamente cominciato ad arrivare in massa. Più di una volta guardo alla mia destra, sul settore 9 del primo anello. Sarei potuto essere lì, dando retta a un altro bagarino (un risparmio di **€ totali), ma così defilato da seguire solo le ascelle della band.
La mia postazione resta ottima, salvo essermi trovato davanti il classico tordo di un metro e novanta. Che per inciso, ha passato tutto il preconcerto su WhatsApp, a chattare con i suoi amici cazzoni.

Una rappresentazione allegorica della situazione (da Le Bistrot Lab).

I Cure hanno spesso cambiato formazione negli anni, frutto della politica a porte scorrevoli imposta da Robertone — e del suo carattere ‘particolare’ — che non rendeva(no) certo semplici le collaborazioni.
Sul palco di oggi ci sono ancora i due componenti storici, quelli che forse non sono davvero sostituibili. Da buon capo di azienda, Smith non ha mai lasciato la poltrona, un po’ come Simon Gallup e il suo basso, dal lontano ’79 a oggi, se pur con una breve parentesi di tre anni a spasso.
L’ultima volta che li ho visti è stato quattro estati fa: il primo sembra più sfinato e si è lasciato alle spalle la silhouette alcolica tenuta per un decennio, l’altro sembra aver ultimato la sua progressiva metamorfosi nella versione punkabbestia di Nick Cave.

Simon Gallup e Nick Cave: qualcuno li ha mai visti insieme?

Con loro, altre tre figure più o meno gradite dalla critica (e dai fans): diatribe troppo succulente per non buttarsi a capofitto con tutte le scarpe.
Siede alla batteria odi et amo Jason Cooper, ormai lì da più di un ventennio e senza mai star troppo comodo: in molti non hanno mai digerito la dipartita di Boris Williams, nonostante gli indubbi meriti del povero Jas. Il quinquennio d’oro ‘87-’92 è davvero un’icona impossibile da fare a brandelli, ma ‘è musica, bellezza!’ e gli anni passano, che vuoi farci.
Tempo prima avremmo trovato lì ‘Lol’ Laurence Tolhurst, stellina tuttofare degli esordi e non solo. Polistrumentista, principalmente drummer e tastiere: quest’ultimo posto ricoperto oggi da quel mattacchione di Roger O’ Donnell, che dopo quindici anni di collaborazioni a fasi alterne è riuscito a farlo stabilmente suo.
Chiude il giro l’innecessaria — ma effettiva — presenza di Reeves Gabrels, oggetto misterioso della formazione targata 2012: in cerca di rinnovamento, i Cure hanno trovato qualcosa che meno Cure davvero non potesse essere.
Già presente alla loro ultima apparizione qui in Italia, a distanza di quattro anni ho scoperto in lui la sorprendente somiglianza con Gianluca Vacchi, se pur con qualche filo di pelle in più addosso.

Reeves e Gianluca, i fratelli Vacchi.
P.T.

Gabrels non è riuscito a eguagliare il più che dignitoso Perry Bamonte (‘94-’05) e tanto meno colmare la lacuna di Porl Thompson (‘83-’92 e ‘05-’11). Quest’ultimo, strettamente legato ai successi e alle vicende extra lavorative dei Cure, come membro di punta della formazione ‘classica’, oltre che cognato di Robert e fratello dell’ex moglie di Simon.
Nel suo palmarès, collaborazioni anche con Robert Plant e Jimmy Page.

Una foto d’epoca della formazione classica a fine anni ’80. Da sinistra: Boris Williams, Robert Smith, Roger O’ Donnell, Simon Gallup e Porl Thompson.

Tra me e me provo a scongiurare alcuni eventi che potrebbero compromettere la credibilità dell’evento, la scaletta in primis.
Più di ogni altra cosa, prego mani al cielo che la canzone di chiusura non sia una tra ‘A Night Like This’ e ‘If Only Tonight We Could Sleep’. Oppure ‘Let’s Go To Bed’, oppure ‘At Night’, oppure vattelappesca. C’è da ammettere che il loro repertorio sia pieno zeppo di canzoni in cui si parla della notte, ma sputtanarsi in questa maniera sarebbe davvero una caduta di stile.
Prende piede anche la suggestiva ipotesi ‘Lullaby’, per quanto buttata senza pudore in pasto ai faggots. Gli stessi che hanno mandato in fumo uno stipendio per sentirsi dire che il venerdì ci si innamora.
Vengo parzialmente smentito perchè ‘A Night Like This’ è tra le prime tre, dopo l’apertura delle danze con una inedita ‘Shake Dog, Shake’ e ‘Fascination Street’ a seguire.

Lo spettacolo procede e la voce di Robert Smith sembra reggere ancora bene, nonostante i sessanta siano ormai dietro l’angolo. La prima tirata è di una ventina di pezzi eseguiti tutti d’un fiato, molti sono singoli più inflazionati ma non mancano alcune gradite sorprese: così dopo le dovute ‘Inbetween Days’, ‘Play For Today’, ‘Pictures Of You’, la già citata ‘Lullaby’ e ‘Lovesong’ trovano spazio anche ‘The Walk’, ‘Kyoto Song’, ‘Charlotte Sometimes’ e ‘One Hundred Years’.
Tutto magnifico, ma i rischi del parterre non tardano a manifestarsi: alle mie spalle una tizia sulla quarantina si sente di commentare puntualmente ogni nuovo attacco con un ‘beeellaaaa!’ tanto ebete, quanto stridulo.
Da segnalare una inspiegabile versione riarrangiata di ‘Just Like Heaven’ che convince poco il pubblico: l’unica nota lieta a riguardo è proprio il silenzio da parte della cornacchia.
Primo encore, poi altri tre pezzi prima del secondo. Raccolgono uno scontato successo le performance di ‘Burn’ e ‘A Forest’. Poi ancora tre canzoni prima del terzo e ultimo encore, tra cui una raggiante ‘Never Enough’.

Di mezzo tra i vari interventi di Robert, un accenno — più gestuale che altro — al suo modo di intendere l’espressività facciale e il movimento di mani e corpo. Il breve discorso, in inglese con timidi accenni di italiano, non viene capito dai più, che ridono ugualmente simulando nonchalance.
Ampiamente superata la fase di mezzo del concerto, sento ancora in tasca il braccialetto giallo fluo datomi da quel viscido personaggio all’entrata: lo sfilo dal jeans, riservandogli un piccato sguardo di sufficienza.
Il rush di chiusura è aperto da ‘The Lovecats’ per la gioia delle gattare sugli spalti. A seguire, una applauditissima ‘Hot Hot Hot!!!’ e — deo gratias — ‘Let’s Go To Bed’.
Chiude la serata ‘Why Can’t I Be You?’, ma non prima di servire in un sol colpo la triade ‘Friday I’m In Love’ — ‘Boys Don’t Cry’ — ‘Close To Me’. La platea sembra aver gradito e arriva il momento di congedarsi. «Ccrazzie, Rromaa!».

Lo stadio si svuota e iniziano a spuntare fuori le bottigliette sul parterre, percepite fino a quel momento solo al tatto. E la melma sul pavimento con loro. Sono le undici e mezza, fa freddino e trentuno pezzi sono una discreta ragione per chiudere la serata col pollice alzato.
Esco dal piazzale, ripercorrendo a ritroso la via verso la macchina. A metà strada vengo colto da uno sturm und drang trattenuto sei ore e sono costretto ad ‘appartarmi’ per qualche minuto nella selva oscura del vicino laghetto artificiale.
A tal proposito, i dannati si sono ormai dileguati, lasciando un inquietante silenzio a quel luogo fino a poco prima così frizzante. Torno al mio parcheggio, con l’automobile circondata di fogliami e l’umidità alle stelle.
Poca gente in giro e tante luci, giro la chiave e metto in moto.
Rincasato, trovo mio padre davanti alla tivù accesa.

«Il concerto?»
«Bello, ci stava.»
«Close To Me, l’hanno fatta?»
«Mah, si… tra le ultime, pensa.»
«Hanno suonato tanto.»
«Più di tre ore, sono sorpreso infatti.»
«Il cantante? Ancora con la panza?»
«No dai, un po’ si è sistemato.
Giusto qualche chilo in meno…»

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Antonio Tripodo
Le Bistrò

Uno, nessuno, centomila. 26 anni, studente a tempo pieno, fumettaro a tempo perso, scrittore a tempo variabile. Credo nell’ironia, amo il futból e i pepperones.