Specchi neri e doppie realtà

Un mondo senza social network è possibile?

Paola Licari
Le Bistrò
4 min readMay 2, 2017

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Ogni tanto, in casi che ormai sono più unici che rari, ci capita di spegnere il nostro smartphone. Ci vediamo riflessi in modo leggermente deforme su uno schermo nero. Black Mirror, ossia l’immediata realizzazione che quel riflesso nero, deforme e triste ci assomiglia più dell’immagine felice, spensierata e al limite del perfetto che presentiamo sulla realtà virtuale.

Guardo una puntata di Black Mirror e, spaventato, penso che quelle distopiche visioni di un futuro retto dalla tecnologia sono più vicine di quello che penso. È importante premettere che non faccio parte dei nostalgici che rimpiangono l’assenza di internet e delle nuove tecnologie: senza internet, non saprei nemmeno un centesimo delle cose che so e che mi hanno aperto un mondo di opportunità a livello cognitivo, sociale e introspettivo. Internet ha democratizzato conoscenze che prima erano patrimonio di pochi, oltre ad aver accelerato la comunicazione fino a farla divenire immediata, quasi come lo fece l’invenzione della stampa qualche secolo fa.

Quest’immenso panorama di possibilità ha creato una sorta di realtà oltre la realtà fisica. Una realtà socialmente più libera, con tutti i rischi che ciò comporta (dark web). Il problema è che troppa libertà significa insicurezza, rischi, e ciò ci fa paura: per questo esistono i social network, dei posti dove ci sentiamo un po’ a casa, dove abbiamo il nostro giro di conoscenze di cui ci possiamo fidare, piuttosto che di qualche sconosciuto in questo fiume di algoritmi. Posti dove ci rintaniamo nei momenti di noia; dove “ci piacciono” le gioie degli altri, i video di gattini e i meme con cui ci possiamo identificare; dove possiamo anche sapere le notizie del giorno in video di un minuto, compatti e facili da capire; dove abbiamo la libertà di esprimere le nostre opinioni su qualsiasi argomento; dove possiamo sapere che fine abbia fatto chiunque, dal nostro primo amore fino al bambino che ci rubava la merenda alle elementari, e gioire della loro vita miserabile.

Sembra tutto bellissimo, e lo è. Questa “realtà alternativa”, però, ci conduce come parte della società lungo una strada inospitale, ma anche quella in cui è più facile finire. È quella di farsi inghiottire, senza rendersene conto, dalla quantità di informazioni e dal social network stesso, che non viene considerato come un agente esterno - concretamente un’azienda con un proprietario con degli interessi e molti impiegati da pagare; invece, viene considerato da una parte come un amico, un confidente, e dall’altra come una piattaforma dove ci vengono annunciate le cose più belle, divertenti e in voga, che vanno assolutamente fatte e che naturalmente quando si fanno vanno condivise!

Non importa se in discoteca sono stata praticamente violentata da 25 maschi in calore, mi sono quasi rotta una gamba per i tacchi e a fine serata ho dato di stomaco tra le lacrime perché l’unico modo per superare i miei problemi di autostima è quello di bere, l’importante è far vedere che ci sono andata e mi sono divertita! (Lau Ra, 15 ottobre 2016)

Questa strada crea una terza realtà, che fu definita iperrealtà da Jean Baudrillard già nel 1981 nel suo libro Simulacres et Simulation. Baudrillard non si riferiva ancora ad internet, ma solo ai mass media e al consumismo. Con l’arrivo di internet però, l’iperrealtà ha assunto caratteristiche ancor più inquietanti: una dimensione in cui la realtà fisica e la realtà virtuale si mischiano a tal punto che la realtà fisica diventa quasi secondaria e potrebbe sembrare addirittura falsa, se non accompagnata da una rappresentazione sulla realtà virtuale.

Secondo Baudrillard, l’iperrealtà si basa su due concetti: le simulazioni, cioè imitazioni di avvenimenti del mondo fisico, e i simulacri, ossia “copie” di avvenimenti che in realtà non esistono neanche nel mondo fisico. La realtà virtuale, infatti, essendo comunque soggetta alla realtà fisica, può essere manipolata notevolmente: per questo, il concetto di iperrealtà spiega una serie di problemi sociali relativi alla “cultura dell’immagine” e alla manipolazione mediatica e informativa.

L’esempio forse più azzeccato della distopia nel perfetto stile Black Mirror che sta avvolgendo sempre più prepotentemente le relazioni sociali sono le stories, in cui gli utenti caricano foto o video di pochi secondi e che durano solo 24 ore. I caricamenti, essendo temporanei, non sono più soggetti a un minimo processo di selezione come nei social network tradizionali e quindi aumentano esponenzialmente, diventando “testimoni” della vita quotidiana.

Prima esclusiva di Snapchat, la loro comparsa su tutte le piattaforme più importanti (Instagram, Facebook e WhatsApp) ha fatto sì che l’interconnessione e l’immediatezza siano aumentate considerevolmente di volume. Insieme a loro, però, la voglia (o necessità) di fuggirle.

L’alternativa è, forse, la nuova tendenza di separarsi completamente dai social network. Buttare lo smartphone, riprendere il vecchio Nokia 3310 e cercare di sopravvivere con meno schermi. È però un’alternativa possibile? I social media sono ormai parte integrante e apparentemente necessaria della vita sociale, partendo dall’ambito lavorativo fino all’affettivo. Eppure sono sempre di più i nuovi “vecchi” telefoni sul mercato, a partire dalla stessa Nokia, che sta ricommercializzando il 3310, fino al nuovissimo Light Phone.

La necessità di isolamento è sempre apparsa nel corso della storia del pensiero, esempio più chiaro e recente il trascendentalismo nordamericano. Anche l’era che stiamo vivendo ha bisogno di un movimento isolazionista: stavolta, però, dalle catene digitali.

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