Video killed the Radio Star?

Antonio Tripodo
Le Bistrò
Published in
5 min readApr 18, 2020

Era il 7 settembre del 1979 quando veniva trasmesso per la prima volta il noto tormentone synthpop che avrebbe consegnato i The Buggles all’immortalità.
Un motivetto più che orecchiabile che cavalcava con malcelata ruffianeria il sentimento della generazione precedente, raccontando una rivoluzione da poco avvenuta nel mondo dello spettacolo: quella dell’immagine.

Il nuovo millennio ci ha dato una società messa quotidianamente a confronto con questo aspetto, non senza qualche eccesso. Dal canto suo anche la musica ha trovato nell’estetica uno strumento d’espressione nonché un brand eccellente. Un modello che non ha mostrato finora il minimo segnale di cedimento e che è probabilmente destinato a consolidarsi.

Fino a che punto si è spinta l’immagine? Innegabile è l’influenza che ha nel nostro giudizio non solo il prodotto, ma anche la figura dell’autore.
Chi è, da dove viene, il suo stile e il suo abbigliamento. E forse, anche come si comporta al di fuori del palcoscenico.
E’ facile notare quanto tutto questo significhi in fatto di vendite. Sicuramente meno il grosso cambiamento che ha determinato nelle dinamiche di produzione.

E’ vero quel che si dice?
Davvero l’estetica ha avuto la meglio sulla bravura individuale?

Proviamo a dare una risposta più consapevole, esplorando direttamente questo mondo di cui vediamo solo la punta dell’iceberg.
L’abbiamo chiesto a un giovane musicista esordiente della scena romana, che ha accettato di raccontarci la sua esperienza a patto di mantenere segreta l’identità.

Partiamo subito a bruciapelo: quanto fa l’immagine nella musica di oggi?
Sembra banale, ma fa davvero moltissimo. Presentarsi al pubblico in una certa maniera fa la differenza. E’ un processo in atto nel mondo dello spettacolo da diversi anni e ad ogni livello.

Come ci si presenta oggi?
Ovviamente tramite i social, che hanno determinato un cambio radicale in questo ambito. Su Facebook ed Instagram chiunque, gruppi o progetti solisti, può pubblicare gratuitamente contenuti musicali o multimediali, annunciare concerti o uscite di materiale.

E funziona?
Beh, altrimenti rischi di non iniziare neppure.

In che senso?
Presentarsi ad etichette, produttori, gestori di locali e nuovi possibili fan con dei profili pieni di like e più contenuti possibili equivale quasi a un curriculum. Direi che è indispensabile. In fondo per loro prendersi un gruppo significa accaparrarsi il suo seguito.

E come si ottengono follower?
Chi inizia solitamente pubblica anche solo qualche foto in sala prove con qualche hashtag — che so, #staytuned — per mantenere la pagina attiva. Ovviamente ai livelli più alti il tutto avviene in maniera più programmata sia per tempistiche che per contenuti. Poco o niente viene lasciato al caso, anche giustamente direi.

Il social ha davvero tutto questo potere?
L’estetica non è un’invenzione di ieri e aiuta sempre molto. Credo che però oggi ne sia stato un po’ alterato il senso.

Spiegaci.
Non vorrei venire frainteso, ma sempre più spesso mi capita di vedere cover interpretate da ragazze bellissime (spesso scollatissime) e rilevo che il 90–95% dei commenti è riferito a quanto lei sia attraente e sensuale. Non che sia un reato, ma il più delle volte mi chiedo se si trovino davvero lì solo per quella drum-cover di Back In Black. Ovviamente è un discorso che non vale solo per le donne.

Ti direbbero che i sex symbol fanno musica da sempre.
Vero, anche se prima non avevano tutti questa esposizione e soprattutto non così diretta. Gli strumenti di comunicazione non consentivano questo rapporto fra chi seguiva e chi veniva seguito.

Come li definiresti allora?
Con un termine un po’ abusato: influencers.

Non credi sia un po’ vago?
Forse, ma non saprei definire meglio un rapper o trapper che fa questo utilizzo compulsivo delle stories. Un singolo dissing trent’anni fa durava mesi, oggi si esaurisce entro ventiquattro ore e senza neppure una sparatoria (ride).
Il risultato finale è una serie infinita di frecciatine lampo e solo nelle pause qualcuno riesce anche a pubblicizzare il suo nuovo pezzo. Aggiungerei che in questo modo viene quasi mortificato il concetto stesso di album, ma mi fermo qui.

Come credi che sia cambiata la figura dell’artista?
Per come la vedo sembra sempre più chiamato a vendere in prima persona il suo prodotto e a volte diventarlo. Nella maggior parte dei casi si trasforma in una sorta di rappresentante, di quelli che bussano con insistenza alla tua porta. Solo in forma virtuale.
Non vorrei fare della retorica stucchevole, credo però che il prodotto musicale non possa che risentire di questo trend. Ed io non proporrei mai un articolo scadente con il solo scopo di venderlo.

Parlavamo prima di case discografiche. Che ruolo giocano in questo panorama?
Seguono ovviamente la direzione che più gli conviene e non possono che assecondare la tendenza. Come ho detto prima, la presentazione condiziona i compratori, ma direi anche i venditori. Gli artisti cercano ormai qualsiasi piattaforma che gli dia credibilità sotto forma di consensi. Penso ad un mio conoscente che fa 5000 ascoltatori mensili su Spotify e si sente in una botte di ferro.

E quando si bussa alla loro porta?
A volte neppure è sufficiente avere una discreta fandom. Capita che alcune etichette scartino le demo di artisti perchè non dotati di un dominio proprio. Neppure aprirebbero una @gmail, ad esempio. E se così fosse sarei il primo a pagarne le conseguenze (ride).

Cambiamo argomento: come spieghi la difficoltà di progetti musicali nuovi a nascere in Italia?
Beh, a volte è una tendenza passeggera. In altri paesi invece è una questione storica. Qui ad esempio, quante volte abbiamo sentito dire che è il paese sbagliato per far musica? O che la musica italiana non attira? Tante, forse troppe.

E da cosa dipende?
Un italiano che suona generi come il rock, il metal o l’indie paga un po’ di sfiducia generale. Siamo visti come poco internazionali, forse a ragione.
Tuttavia credo che nessun pregiudizio debba tagliare le gambe ad un musicista: la musica è un’arte livellatrice e se non vali ti fai fuori da solo.

Da cosa nasce questo pregiudizio?
E’ una domanda che mi faccio spesso. In parte potrebbe dipendere dai pochi investimenti fatti sulla strumentazione. Credo tuttavia che il discorso abbia soprattutto radici culturali.
Inconsciamente, anche il musicista professionista viene percepito al pari di un semplice amatore, come non stesse svolgendo un vero lavoro. Soprattutto certi generi non godono di considerazione e per questo mancano i locali disposti ad ospitarne un live.

Trovi un colpevole oggi o nel passato?
Il problema può essere nostro come del pubblico. Ma è nato prima l’uovo o la gallina?

Perché gli stranieri invece vanno così forte?
E’ sicuramente una conseguenza di ciò che abbiamo detto. Forse un po’ anche per moda. In fondo anche nello sport, a parità di bravura, il talento estero ha più appeal di quello nostrano.
Certa musica qui viene fatta da sempre, eppure restiamo convinti che non ci appartenga. Guardiamo agli altri in maniera migliore di noi stessi.

E’ per questo che tanti cantano nella loro lingua?
Stavo per dirlo. L’Italia ha una grande tradizione di cantautori, ma non ha la cultura rock del Regno Unito o degli Stati Uniti. Questo ha portato gruppi emergenti italiani a cantare in inglese e ciò contribuisce ancor più ad alimentare il pregiudizio. Vedo un’unica eccezione nei rapper che però, sfortunatamente, non sono proprio il mio genere (ride).

Grazie della chiacchierata.
A voi.

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Antonio Tripodo
Le Bistrò

Uno, nessuno, centomila. 26 anni, studente a tempo pieno, fumettaro a tempo perso, scrittore a tempo variabile. Credo nell’ironia, amo il futból e i pepperones.