La macchia umana — Philip Roth

Chiara Tedeschi
Le Carbonare
Published in
2 min readApr 4, 2017

Insomma, perché non avete dato il Nobel a quest’uomo? Che vi ha fatto?

Non avete avuto il coraggio, eh? Mettere il piede in questa fredda palude di ossessioni… Uno stagno torbido di cui il fondo non si vede, non si vede.

È Coleman Silk, che si vede davvero, attraverso le oltre 300 pagine di questo romanzo? O è qualcos’altro? Un uomo seduto su un secchio rovesciato sopra la superficie ghiacciata di un lago? Che pesci nuotano, sotto questa superficie? Ci mangeranno, questi pesci?

Si sceglie di essere qualcosa che non si è. Si decide di nascondere la macchia che ci portiamo addosso, di non vederla. Oppure, si decide di essere quella macchia. Quella cosa sbagliata. La cosa che tutti guarderanno con orrore, additeranno da lontano, rifiuteranno. La cosa che ci rende razza rifiutata. La convenzione che distrugge la nostra vita. La scure sul collo del capro espiatorio: la colpa che ci identifica in qualcosa che sappiamo riconoscere.

È questo da cui si allontana Coleman Silk? È questo che sceglie Faunia? È questo da cui è irrimediabilmente attratta Delphine Roux? È questo che la barba impenetrabile di Lester Farley non riesce a nascondere?

Non lo saprete mai. Non avete messo il piede nell’acqua torbida di queste pagine dense. Non vi ci siete persi, non avete annaspato, in cerca di qualcosa, di un barlume di senso che vi traghettasse nelle acque più limpide di un Franzen, ad esempio. Voi, a Stoccolma, vi siete lasciati cullare dalle note di Bob Dylan e questo libro non lo avete letto. Avete scelto la via facile. Non avete voluto vedere la macchia nascosta nelle infinite pieghe, nelle infinite parole impresse nell’anima dell’uomo. Mannaggia a voi.

--

--