Moby Dick: an ode to sperm

Chiara Tedeschi
Le Carbonare
Published in
5 min readSep 4, 2017
Corriere della Sera, 23 giugno 2014

Non ho scelto, per questa recensione, una delle consuete immagini che si associano alla storia di Moby Dick, il cetaceo albino più famoso del mondo. Non l’ho fatto, altrimenti avrei dimostrato di non aver letto a fondo il libro. Un’immagine diversa sarebbe innanzitutto fuorviante per altri potenziali lettori: io voglio avvertire, fin da subito, che quello che volete leggere è solo accidentalmente un romanzo (dove per romanzo si intende un testo narrativo che dentro abbia, anche per caso, una storia), e invece, in modo assai meno accidentale e più intenzionale, un trattato per la caccia alla balena.

Quindi, regolatevi, perché la storia di Ahab (si scrive così e si chiama così per un motivo) occuperà, sì e no, un quarto del libro, o forse anche meno. Per arrivarci, prima, dovete imparare alcune cose:

  • le caratteristiche di tutte, dico tutte, le specie di cetacei esistenti nella parte acquea del mondo (cap. 32)
  • le raffigurazioni della balena, veritiere o meno (capp. 55–56–57)
  • come cucinare una balena (cap. 65)
  • come scuoiare e macellare una balena (capp. da 67 a 70)
  • che differenza c’è tra la testa di una balena e quella di un capodoglio (capp. 74–75)
  • la lavorazione dell’olio di balena (capp. da 76 fino a 80)
  • come recuperare un arpione (cap. 84)
  • com’è fatto lo sfiatatoio (cap. 85)
  • com’è fatta la coda (cap. 86)
  • la denominazione di un banco di balene (cap. 88)
  • cos’è l’ambra grigia (cap. 92)
  • altro sulla lavorazione dell’olio di balena (capp. 95–96–97)
  • come pulire la nave baleniera dopo aver macellato una balena (cap. 98)

E ancora, quando ormai siete a due terzi del libro e vi state chiedendo se mai Moby Dick si farà vedere, ci toccano, nell’ordine:

  • le misure di uno scheletro di balena (cap. 103)
  • le balene fossili (cap. 104)
  • le balene riducono le loro dimensioni con l’evoluzione? (cap. 105)

Insomma, se non conoscete tutti questi aspetti della caccia alla balena, o meglio al capodoglio, allora state solo millantando di aver letto Moby Dick, o avete seguito i (forse illuminati) consigli del Daily Telegraph.

Detto questo, ‘sto benedetto libro va letto oppure no? Si tratterebbe, addirittura, di un libro consigliato per le letture giovanili e scolastiche. Le difficoltà in questo caso, soprattutto nel mondo anglosassone, sono assai note, e le operazioni per rendere digeribile le grasse balene della letteratura agli studenti hanno qualcosa di titanico, sia nei loro sforzi che, mi immagino, negli esiti.

Moby Dick, per altro, data al 1851 e se pensiamo che il nostro monumento letterario nazionale, I promessi sposi, è del 1842 (terza edizione), immagino che le sfide, sui banchi di scuola, siano analoghe per le due opere. Detto questo, noi abbiamo personaggi miliari come la Monaca di Monza, l’Innominato, ci godiamo le descrizioni sublimi e terribili delle pestilenze e le goffe umanità di Don Abbondio. Loro hanno il grasso di balena. E Ahab che nel momento cruciale rompe sestante, bussola, e quasi fa affondare il Pequod. Italia: 1, USA: 0. Palla al centro.

In realtà, non avrei potuto scegliere un paragone più fuorviante, perché Melville, pur con tutti i suoi limiti, in un’esplosione di creatività linguistica impressionante (che porta i suoi traduttori a sicura follia), vuole fare letteratura di un mondo che di letterario ha molto poco, ed ha intenti che più che al romanticismo manzoniano si attaccano al realismo. Un realismo debordante. E però, nello stesso tempo, è un libro di un’epoca ancora anteriore. È un libro-mondo, come lo concepivano gli autori rinascimentali e barocchi. E nel mondo ci si perde.

Ma chiudiamo la parentesi di critica letteraria e continuiamo. Sì, la lingua, parliamo della lingua. Mi immagino cosa voglia dire leggere, in una classe di adolescenti, pagine e pagine di lode incondizionata allo ‘sperm’, sostanza liquida, odorosa, affascinante e preziosa corrispondente all’olio di balena, e invocata da Melville attraverso la voce rapita del suo narratore Ismaele, addirittura osannata, adorata e maneggiata e chiamata ‘sperm’ — sperma, in alcune nostre traduzioni — per tutto il libro. Si ha il sospetto che Melville indulgesse in questa esilerante ubiquità del termine, a maggior sollazzo dei suoi lettori. In ogni caso, se ci penso ci rido ancora (anche se simili scivoloni sono di ogni letteratura, come il ‘santo uccello’ della Divina Commedia, Paradiso, XVII, 70).

In realtà, sono troppo cattiva: Moby Dick ha dei personaggi che portano su di sé la grandezza mastodontica di conflitti eterni ed eternamente validi (e che blaterano come eroi shakesperiani anche sul ponte di una nave che affonda), e la policromia espressiva di una gamma di caratteri variegatissima; è una metafora interessante di una società che non riesce ad essere democratica finché si assoggetta alla follia di un’autorità monomaniacale come quella di Ahab. Eccetera, eccetera.

In effetti, se un libro non è faticoso, non è un classico. Se un libro riesce a farci leggere centinaia di pagine sulla macellazione della balena anche se non abbiamo nessuna voglia di catturarne una (o di sapere come si fa), allora è un classico. Ma è un classico di cui ci appropriamo senza capirlo, raccontando solo una parte della storia. Come volte accade, si continua a parlare di questo libro senza averne, di fatto, un’idea. Trattandolo come un libro di avventura quando non c’è nulla di avventuroso, in sé. È una tragedia. I limiti, ma anche la grandezza dei personaggi, sono quelli di una tragedia. Il conflitto fra Starbuck e Ahab è quello di Amleto e di Orazio; il tortuoso e paradossale mormorio di Stubb è quello delle streghe di Macbeth. La balena non è il protagonista, ma il deus ex machina che ciecamente risolve una situazione insostenibile. Che cosa c’è di più classico, e anche di più prevedibile, della fine di Moby Dick? A questo punto, in una tragedia non ci si aspetta che ci si istruisca sulle bistecche di balena, o no? Melville, ci hai fregato.

Sì, insomma, è un grande libro: forse, un libro da gustare in un corso universitario. Un libro, paradossalmente, da ingrandire e gonfiare ulteriormente con approfondimenti, riflessioni, glosse, discussioni che, come il grasso del capodoglio, diano sostanza, grandezza, magnificenza ulteriore allo scheletro della creatura stessa.

Alle balene (per fortuna) non si dà (quasi) più la caccia. E Moby Dick, la balena bianca tra i libri, appartiene alla tradizione, non al consumo.

--

--