E saremo felici per sempre

Patrizia
Le ragazze di Wuchale
6 min readJun 19, 2015

Il mio nome è Desta, ho 18 anni. Vengo da un villaggio che si chiama Teremchg. Da qui sono 12 ore di cammino, ma io qui non ero mai venuta prima del liceo. Sono cresciuta lassù, in montagna, e la nostra ricchezza era un campo di fagioli e una mezza dozzina di capre. Il problema maggiore era l’acqua, perché al villaggio non ce n’era e per prenderla bisognava raggiungere il fiume, mezz’ora a piedi ad andare e un’altra mezz’ora tornare.

Appena ho avuto abbastanza forze per trasportare la tanica, era quello il mio compito a casa, oltre a pascolare le capre. Però, per fortuna, i miei hanno continuato a mandarmi a scuola e così quando ho finito l’ottavo anno sono stata selezionata dallo staff della Ngo e dalle autorità locali per meriti scolastici: sì, mi piace studiare, specialmente scienze e biologia.

Così mi hanno offerto la chance di venire qui a Wuchale, nell’ostello: siamo in trenta ragazze e sento ormai le altre, tutte, come mie sorelle.

Qui ci danno da mangiare e da dormire, il mattino possiamo andare alla scuola secondaria, per diplomarci.

Io per esempio voglio diventare un medico e lavorare in ospedale. Ce n’è bisogno da queste parti di medici, sapete?

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Il mio nome è Betelinem, ho 18 anni e vengo da Sanka, nove ore di cammino dalla città. A casa ho ancora un fratello, due sorelle, un toro e due pecore, oltre a mamma e papà. Degli anni passati su al villaggio ricordo soprattutto il periodo della siccità, quando il papà era sempre arrabbiato e in casa non si parlava d’altro, e la mamma la sera piangeva.

A me però hanno sempre dato da mangiare, sono cresciuta e non ho mai smesso di andare a scuola. Adesso che ho la fortuna di fare le secondarie, voglio diventare un ingegnere meccanico.

Poi andrò a vivere in una grande città, mi sposerò e faro quattro figli, due maschi e due femmine.

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Il mio nome è Tarigma, ho 16 anni. Sono nata qui in città, a Wuchale, ma quando mia madre è rimasta incinta di me, mio padre l’ha lasciata. Così sono cresciuta sola con lei, che non aveva un lavoro: ogni giorno girava per le case a chiedere se qualcuno aveva bisogno di aiuto per le pulizie o per cucinare.

Appena ho imparato a camminare, ho iniziato a passare la giornata per strada, mentre mamma puliva le case degli altri o cucinava per loro.

Non è stato un periodo facile e non lo ricordo volentieri, si mangiava una injera una volta al giorno, per dormire si chiedeva ospitalità alle famiglie dove mia madre aveva trovato da lavorare oppure si restava in giro. Quando sono diventata un po’ più grande la mamma però ha provato a mandarmi a scuola e mi hanno accettato. Ero brava, a scuola, ed ero poverissima: è così che sono rientrata nel progetto del Cifa. Quando ho saputo di essere stata scelta, ho pianto di gioia e ho pregato di essere all’altezza.

Se riesco a fare anche l’università, voglio diventare neurologa, per aiutare tutti i bambini che hanno perso la ragione per i troppi anni vissuti in strada.

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Il mio nome è Workwha, ho 17 anni e vengo dal villaggio di Abet, tre ore di cammino da qui. Papà e mamma stanno ancora lì con mia sorella, hanno una mucca, un toro, due capre e un piccolo campo. Quando ho imparato a toccarmi l’orecchio sinistro con la mano destra voleva dire che ero abbastanza grande per andare a scuola e così ho iniziato le elementari.

Però purtroppo non c’erano scuole al mio villaggio e nemmeno in quelli lì attorno: la più vicina era a due ore di cammino.

E così, per otto anni, tutti i giorni mi sono alzata alle cinque per essere in classe in tempo, e a casa tornavo che era mezzo pomeriggio.

Ma ero felice lo stesso perché ero la più brava della classe e i miei genitori erano tanto orgogliosi di me. Anche qui a Wuchale, alle superiori, ho tutti ottimi voti, con l’eccellenza in matematica. Per la mia vita ho un piano preciso: farò l’università, se riesco con qualche corso anche all’estero, per diventare ingegnere civile. Poi però voglio tornare per aiutare il mio Paese a svilupparsi.

Se entro dieci anni riesco a raggiungere questi obiettivi, penserò anche a sposarmi e far figli. Ma dopo, appunto: l’Etiopia adesso ha più bisogno di ingegneri che di neonati.

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Il mio nome è Birtukan, ho 18 anni e vengo da Yebar, un villaggio che da qui dista circa un’ora di autobus più tre di cammino. Sono stata felice, i primi anni, lassù. Passavo tanto tempo con mia madre e con le mie sorelle, avevamo un campo e un po’ di capre, quello che ci bastava per vivere.

I problemi sono iniziati più o meno quando avevo 12 anni, per via della siccità. Quell’anno qui è piovuto pochissimo e la terra è rimasta secca, non cresceva più niente; dopo un po’ hanno cominciato a morire anche le capre e siamo rimaste senza niente.

La stagione umida è passata e la pioggia non è arrivata, non c’era niente da mangiare, mi ricordo la fame che mi feriva la pancia, la sera, prima di andare a dormire, e la stessa fame al mattino, appena sveglia. Ma adesso che sono qui, non ci voglio più pensare.

Ora al villaggio le cose vanno un po’ meglio, insomma c’è da mangiare, ma non abbiamo ancora i soldi per ricomprarci gli animali. A questa cosa dovrò pensare io, quando mi sarò laureata e avrò un lavoro.

Poi, quando tutto sarà sistemato, cercherò il marito migliore che c’è, faremo due figli, un maschio e una femmina, e saremo felici per sempre.

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Questi invece siamo noi, Antonio e Alessandro, rispettivamente il fotografo e il giornalista di questo blog, in mezzo ad alcune delle ragazze di Wuchale, tra quelle rientrate nel progetto Ifso-Cifa per farle studiare. Di tutte non potevamo raccontare qui le storie, ma speriamo in questi giorni di avervi almeno dato un’idea di quello che vuol dire nascere donna da queste parti: il dolore, le paure, le speranze, i sogni, i progetti.

Questo nostro lavoro prenderà poi la forma anche di un reportage sull’edizione cartacea dell’Espresso e di un film cortometraggio firmato dal regista Niccolò Bruna, che in questi giorni è qui con noi insieme a Marco Pastori, di Cifa, che viene in Etiopia più volte all’anno per seguire i vari progetti che hanno qui. A lui vanno i nostri ringraziamenti, così come naturalmente ad altri: a Moulu, la “grande mamma” dell’ostello in cui vivono le ragazze, donna di forza straordinaria; a Getachew, il coordinatore dei progetti della Ong etiope Ifso, che qui collabora con gli italiani di Cifa; a Samuel, a Tesfaye, a Kassahun, ad Abi e a Nigatu, che hanno reso possibile il nostro lavoro; infine — va beh — anche al ristorante “Betel” che per 30 Birr (circa un euro e mezzo) ha servito a ciascuno di noi ogni sera una injera e una birra; se poi nell’arco dei prossimi anni il suddetto ristorante volesse anche aggiungere al menù una qualsiasi variante alla injera, promettiamo la prossima volta di metterlo all’inizio dei ringraziamenti

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Ah, un’ultimissima cosa: qui con poche migliaia di euro l’anno si riescono a sottrarre a un destino di miseria decine di ragazze. Per ora quelle del progetto Ifso-Cifa sono trenta, ma solo perché non ci sono i fondi per far studiare altre bambine e adolescenti. Chi vuole saperne di più e aiutare in qualche modo, può cliccare qui; chi ha una maggiore disponibilità e vuole contribuire direttamente a far raggiungere un diploma a una ragazza, può farlo qui.

Grazie.

Alessandro Gilioli

Photo: Antonio Faccilongo

Originally published at le-ragazze-di-wuchale.blogautore.espresso.repubblica.it on June 11, 2015.

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