L’amico immaginario di Asrebeb

Patrizia
Le ragazze di Wuchale
3 min readJun 19, 2015

Asrebeb ha 16 anni di cui i primi 14 interamente trascorsi al villaggio, nemmeno sapeva cosa c’era oltre la montagna.

Poi però a un certo punto papà s’è ammalato e non riusciva più a lavorare il campo. Così nella loro baracca — sei bocche da nutrire — è entrata la fame, quella vera.

Consigliata da una vicina di casa — quella dei vicini è l’unica rete sociale che funziona, qui in Etiopia — un mattino di due anni fa Asrebeb se n’è andata, per sempre, a piedi e senza niente.

Le ore di cammino fino alla città più vicina, Wuchale, sono state otto. Da qui un autobus di linea e con altre dieci ore si arriva ad Addis Abeba, la capitale. Asrebeb aveva in tasca solo un biglietto con l’indirizzo che le aveva scritto la vicina di casa, su al villaggio, e lì è andata.

Ci abitava una famiglia della mid-class locale che l’ha sistemata in un’altra casa, cameriera fissa a tempo pieno: 200 Birr al mese (dieci euro) più vitto e alloggio. Nessun giorno libero, a disposizione 24/7 per pulire la casa, cucinare, accudire i ragazzini, così via.

Per due anni questo ha fatto, Asrebeb, in silenzio, ringraziando Dio di essere viva ma arrivando a sera sfinita, faticando ogni giorno di più per soddisfare i padroni che le davano da mangiare e dormire.

La scorsa primavera, attorno a Pasqua, qualcuno ha avvisato Asrebeb che a Wuchale era morto il nonno, allora è tornata qui al nord, per il funerale. Doveva fermarsi pochi giorni, ma ogni mattino rimandava la partenza, non voleva tornare davvero nella capitale a lavare pavimenti e panni tutto il giorno.

Dopo un paio di settimane di indugi, a Wuchale ha trovato una vedova con due figli che le ha offerto ospitalità e lo stesso salario che prendeva ad Addis in cambio più o meno dello stesso lavoro: cucinare, guardare i bambini, pulire casa. E Asrebeb accettato:

«Mi ha promesso che a settembre se voglio posso anche tornare a scuola», dice. «Spero che mantenga la parola».

E poi, spiega, qui il lavoro non è duro come ad Addis. La padrona è gentile e la casa dove abitano è in realtà una baracca di legno minuscola, non c’è granché da pulire. Niente acqua corrente, materassi di stracci, ma c’è la tivù con la parabola e qualche volta la sera Asrebeb riesce a vedersi anche film. Certo, anche qui deve stare a disposizione a tempo pieno, non ha giorni liberi e ha bisogno del permesso anche per arrivare fino al bar a bersi una Mirinda; però ha ottenuto due ore al pomeriggio per andare in chiesa — l’unico posto che vede oltre al posto in cui lavora — dove prega, pensa, ascolta le letture dei testi sacri. È il suo svago, la sua libertà.

Insomma, la vita va un po’ meglio. Ma c’è lo stesso qualcosa di grosso manca, adesso, ad Asrebeb. Lo si scopre poco a poco, dopo un’ora di chiacchierata in cui a domanda risponde di non sentire mai al telefono i genitori, di non averli mai più rivisti, di non avere un ragazzo e neppure amiche con cui chiacchierare o farsi una passeggiata.

Ma allora qual è la persona al mondo che più porti nel cuore, Asrebeb?

Ci pensa un po’ poi sorride: «Tilahun Gesses», risponde. E chi cacchio è? «Un cantante pop morto due anni fa», ci risponde. Davanti ai nostri occhi attoniti, Asrebeb non si scompone:

«Sapete, nessun essere al mondo si è mai occupato di me e i miei genitori non sanno nemmeno dove sia. Almeno Tilahun ha fatto delle belle canzoni. Meglio lui, no?».

Alessandro Gilioli

Originally published at le-ragazze-di-wuchale.blogautore.espresso.repubblica.it on June 11, 2015.

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