Habemus papam: come l’ho visto io

Massimo Giuliani
Le storie di Tarantula
4 min readApr 26, 2011

C’era una volta un artista molto arrabbiato che scribacchiava cose di ogni genere, e dopo la sua morte guardarono nei suoi quaderni e videro che in un posto aveva scritto: “I savi vedono i contorni e perciò li disegnano”, ma in un altro posto aveva scritto: “I pazzi vedono i contorni e perciò li disegnano”.
(Gregory Bateson)

Uno dei momenti chiave della storia è quello in cui il papa neoeletto (che il mondo ancora non conosce: al momento di affacciarsi al balcone, terrorizzato, per salutare la folla dei credenti, un attacco di panico lo ha respinto dentro) e lo psicoanalista chiamato ad aiutarlo siedono uno davanti all’altro. Uno dei cardinali che presiedono alla buffa e impossibile seduta, e vigilano che il terapeuta non faccia domande indiscrete, avanza il dubbio: ma il dottore è credente? No, non lo sono, dice Moretti/psicoanalista al papa, che lo guarda sinceramente dispiaciuto.

Due uomini, uno davanti all’altro, parlano di sé. Capiterà ancora qualcosa del genere, quando il dottore si confronterà col cardinale Gregori sulle verità ultime della vita, ma quello sarà piuttosto un futile battibecco fatto di luoghi comuni e di slogan. Ideologia. Niente a che fare con quel breve, intenso momento in cui due uomini si sono trovati uno di fronte all’altro.

Perché per come l’ho visto io, l’ultimo film di Moretti racconta di come, al di là di quelle linee tracciate per separare chi è dentro da chi è fuori, ci sono gli uomini. Le persone, gli individui. Come quei due povericristi che, nell’impossibilità di rivestirsi del ruolo attribuitogli dall’Istituzione cui fanno riferimento (uno perché non se ne sente capace, l’altro per l’ingombrante presenza di tutti quei cardinali guardoni che gli mandano all’aria il setting), si trovano nudi l’uno al cospetto dell’altro. Durante quel bellissimo e intenso dialogo col papa, lo psicoanalista non sa ancora che sarà costretto a passare i giorni successivi chiuso anche lui nel conclave, che non terminerà fino a che il mondo non avrà avuto l’annuncio del nome dell’eletto. Ormai ne conosce l’identità, perciò non può comunicare con l’esterno. Anche lui dentro, dunque, via anche il cellulare.

A cavallo fra quel dentro e quel fuori si svolge la vicenda umana del mite cardinale Melville, eletto papa senza sentirsene all’altezza. Uno che non ci sta dentro, appunto. E infatti, alla prima occasione, farà fessa la sorveglianza e si butterà nelle strade di una città, di un fuori che non conosce. Lì proverà ad essere una persona in mezzo alle persone.

Lo ritroveranno che insegue la passione giovanile per il teatro, in una sequenza che ribalta il dentro e il fuori: tutti i cardinali usciranno dal conclave e lo raggiungeranno in un teatro, per applaudirlo non al balcone di San Pietro ma seduto in un palchetto, che segue — da spettatore e non più da attore — il dramma dell’inadeguatezza (il Gabbiano di Cechov è l’opera che ha amato da ragazzo e che non è mai riuscito a recitare). In quel momento accade l’inatteso: l’attore sul palco (che ha avuto uno scompenso psicotico qualche notte prima ed è appena rientrato nella compagnia apparentemente rinsavito) entra in scena del tutto fuori tempo. Inizia così a recitare la propria parte in un caos esilarante in cui alle battute del suo copione intercala le indicazioni che il copione dà all’attore, esattamente come se facessero parte del testo. I matti hanno un rapporto un po’ particolare con la linea che separa il dentro dal fuori.

Ecco, per come l’ho visto io, il film parla di quella linea che separa chi è dentro e chi è fuori. Quella linea con la quale creiamo le istituzioni, le chiese, le teorie, i partiti, le visioni istituzionalizzate. Di come l’ideologia sia esattamente la fede nell’esistenza concreta di quelle linee. Di come, fedeli a quelle linee, gli uomini siano costretti a costruire narrazioni per tenere insieme la coerenza delle loro identità (come lo psicoanalista, condannato a raccontare a chiunque che sua moglie lo ha lasciato, sì, ma solo perché non sopportava che lui fosse così bravo). Di come, finalmente sullo stesso palcoscenico dove le linee sono solo linee, si ritrovano simili, partecipi della stessa umanità, nelle loro fragilità, debolezze, dipendenze, miserie, incapacità, e nei loro narcisismi gonfiati o feriti.

Originally published at massimogiuliani.wordpress.com on April 26, 2011.

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Massimo Giuliani
Le storie di Tarantula

La cura e la musica sono i miei due punti di vista sul mondo. Sembrano due faccende diverse, ma è sempre questione di suonare insieme.