“La pazza gioia” secondo me (alert spoilerone!)

Massimo Giuliani
Le storie di Tarantula
6 min readJun 25, 2016

Perché nessuno abbia da ridire: questo post svela parecchio su “La pazza gioia” di Paolo Virzì, cose che magari vi piacerebbe scoprire da soli. Se non vi va di rovinarvi la sorpresa, facciamo che andate al cinema e ci vediamo qui quando tornate.
Se invece avete già visto il film, o non avete intenzione di andare a vederlo, o ci andrete ma non avete la preoccupazione di mantenervi ignari della trama, allora buona lettura.

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Per quanto mi riguarda, ho vissuto la prima parte del film nell’attesa. C’era esattamente quello che mi aspettavo: la caciara della comunità psichiatrica, la riunione di équipe dove il medico progressista e forse un po’ ingenuo vuole mandare le due pazienti della comunità a fare un’esperienza di lavoro, mentre l’assistente sociale burbero e preoccupato di seguire le regole ammonisce sulle sventure che ne deriveranno (e già ti ci giochi una mano che tutto questo esiterà entro un’ora nel trionfo del “te l’avevo detto”); c’è la fuga (tanto tanto liberatoria) delle due pazienti, con citazioni esplicite di Thelma e Louise. C’è un sacco di roba in fondo già vista in mille film americani ma anche in altrettante fiction di Raiuno. Certo, raccontata mille volte meglio: non solo perché ci sono anche i personaggi tanto-carucci-che-sembrano-veri, quelli che Virzì dipinge con quell’abilità diabolica di disegnare figure e tipi come nessun altro, ma anche perché lo sforzo di raccontarla con cognizione di causa, con l’aiuto di una squadra di consulenti che la psichiatria la conoscono e la cambiano da dentro — uno fra tutti lo psichiatra Peppe Dell’Acqua — è davvero coronato da risultati egregi. Le pazienti della struttura, la loro vita quotidiana, le loro manie, il rapporto con gli operatori, persino la riunione di questi, sono raccontati con minuziosità e grande attenzione, persino con competenza clinica.

Vabbè, tutto molto bello ma, insomma, è tutto qua? Allora ti metti in attesa di quello che viene dopo, e a un certo punto cominci a pensare che tutto quel che succede nella prima parte non è ancora la ragione per cui hai fatto trenta chilometri fino alla multisala, eppure è necessario. È necessario perché per stare dalla parte dei matti e degli sbagliati ci vuole rigore. Per dire qualcosa sulla violenza delle relazioni quotidiane, e su come quella passi talvolta anche per i contesti di cura, e per farlo in modo credibile, non puoi limitarti alle macchiette degli psicoqualcosa e dei professionisti della cura che si incontrano nel cinema e nella televisione italiana, sciatti e falsi come una banconota da sette euro. Anzi no, peggio, falsi come il veterinario dell’Amaro Averna.
Così, il fatto che quel mondo sia raccontato con una cura formidabile non è funzionale solo allo spettacolo.

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Infatti nella seconda parte Virzì si gioca la credibilità che si è guadagnato nella prima. E osa l’inosabile: dopo la commedia e il sorriso, scopriamo che Donatella (straordinaria, Micaela Ramazzotti), è una madre che voleva annegare insieme al suo bambino. E Virzì decide di raccontarci la storia dalla sua parte.
Ecco, io trovo che decidere di provare simpatia per un personaggio che solo per miracolo non si rende colpevole di una colpa così atroce, sia quello che rende prezioso questo film e insostituibile un regista come Virzì. Il quale, come solo pochi altri saprebbero fare, assume il punto di vista dell’omicida-suicida, e per lei e per la sua follia dichiara la propria comprensione, seppure senza semplificazioni e senza assoluzioni. Lo fa nell’Italia del Fatto Quotidiano, nel paese che scambia la rivoluzione con il legalismo stolido e ragionieristico, dal quale Virzì prende le distanze almeno quanto dal delirio persecutorio e paraculo sulle “toghe rosse” e sulla “magistratura ad orologeria” della mitomane Beatrice Morandini Valdirana (cioè Valeria Bruni Tedeschi, immensa) e del suo illustre modello (non facciamo nomi, per carità).
Beatrice è una spiantata che pure fu ricca, e ha dilapidato i soldi propri e della famiglia d’origine appresso agli uomini più sbagliati che potesse incontrare. È una rompicoglioni che vive per fare sfoggio della propria perduta nobiltà e per mettere in scena ogni giorno la caricatura patetica della donna che fu, o che avrebbe voluto essere. A proposito: se Virzì non prendesse per il culo se stesso almeno con la stessa cattiveria con cui si prende gioco dei ricchi e dei fanfaroni, non riusciremmo a prenderlo sul serio. Quando Donatella incontra la mamma di Beatrice (Marisa Borini, che nella vita è davvero la madre di Valeria Bruni Tedeschi), trova la villa maestosa dei Morandini Valdirana occupata da un set cinematografico. E lì l’anziana madre (irritata con Beatrice che ha dissolto il patrimonio familiare) le spiega che per campare “siamo costretti ad affittare la villa al cinema italiano, guardi come siamo ridotti!”. E già così sarebbe esilarante, ma quando sulla sedia del regista vedi una sfinita Francesca Archibugi (coautrice della sceneggiatura di “La pazza gioia”) è da applausi in piedi.

Dicevo, la maneggiona Beatrice rintraccia il figlio di Donatella, che è cresciuto in una famiglia adottiva e a cui a Donatella è vietato avvicinarsi. Non lo fa per amore di Donatella, macché: lo fa perché è una donna egocentrica che ha trovato un modo originale di sentirsi viva, cioè quello di entrare come un terremoto nelle vite degli altri con la sua presenza ingombrante. Donatella, col suo dramma, è il ritratto della disperazione più profonda: ed è proprio nei personaggi disperati e marginali che l’abilità insuperabile di Virzì nel disegnare bozzetti diventa davvero qualcosa di più, supera l’ammirazione per l’abilità e diventa meraviglia autentica.

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Così, in tutta la seconda parte del film accettiamo di seguire l’autore in un percorso in cui non si mette a fianco di chi ha ragione, ma di chi è più fragile. E scopriamo che le cose importanti e vere accadono fuori dal recinto delle regole, proprio come le vite delle due protagoniste si muovono fuori dai confini della normalità condivisa. Prendete anche i personaggi minori: il tassista al quale Beatrice promette mille euro per portarla in giro fino alla fine della giornata, e che alla fine non solo la protegge dall’ex amante esoso, ma forse rinuncia al compenso pattuito: ecco, non lo fa perché è ligio a qualche tipo di legge o di regola, non lo fa perché è prescritto — e in fondo sarebbe dalla parte della ragione se si limitasse a prendersi quanto gli spetta — ma perché prova autentica compassione e solidarietà per quella disgraziata.
E i genitori adottivi del bambino di Donatella, che sulla spiaggia si astengono — e con sofferenza — dall’interrompere l’incontro imprevisto tra il figlio e la madre biologica che lo ha ritrovato: ecco, sanno bene che quello a cui assistono è fuori dalle regole, e nel proprio interesse potrebbero persino interromperlo, e se decidessero di procurare dei guai a Donatella, lo farebbero a buon diritto. Ma esitano, e lasciano che l’incontro accada. Non perché debbano, ma perché nel profondo sentono che è giusto e si assumono un rischio. Perché non sono le regole astratte che governano il mondo, ma quello che connette le persone fra loro, quello che tutte — in modi diversi — cercano.

Ma quel maledetto di Virzì non si accontenta di averti preso il cuore e di avertelo fatto a fettine con la sequenza della spiaggia. No, nel momento in cui Donatella e il bambino si lasciano, piazza una di quelle battute straordinarie e ruffiane per le quali non sai se odiarlo perché gioca coi tuoi sentimenti o amarlo per come sa creare un crescendo di tensione emotiva e poi dissolverlo in un moto irresistibile di commozione. Il bambino, richiamato da un amico per giocare a pallavolo, volta le spalle a Donatella e lo segue borbottando “che palle, sono basso!”; e lei, materna, grida “non è vero!”. E poi, fra sé, mentre lui si allontana: “è che sviluppiamo tardi”. E alla fine decidi per la prima, cioè lo odi, ma nello stesso tempo gliela perdoni perché quello che serve per uscire felice dal cinema, in fondo, c’è tutto.

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Massimo Giuliani
Le storie di Tarantula

La cura e la musica sono i miei due punti di vista sul mondo. Sembrano due faccende diverse, ma è sempre questione di suonare insieme.