La chimera del cambiamento imposto

Andrea Faré
Leapfrog team
Published in
4 min readJan 13, 2020

Immaginate di voler proteggere un bambino dai pericoli del fuoco, senza che questi ne abbia mai visto uno, come procedereste?

Da adulti potremmo essere tentati dall’approcciare analiticamente la questione: “non avvicinarti che ti scotti!” eggià, peccato che il nostro piccolo amico non abbia idea di cosa voglia dire “scottarsi”. Che fare allora: ricorrere ad qualche tipo di metafora? Cercare similitudini con esperienze passate? La strada migliore sarebbe probabilmente quella di far avvicinare la mano del bimbo al fuoco fino a che non ne sente il calore superando il punto che gli genera un istinto di autoconservazione in modo che la ritragga autonomamente, pur senza scottarsi.Nè deriverebbe una propria nuova consapevolezza molto più solida e consistente.

Ora vi chiedo uno sforzo di astrazione pensate di dove comunicare un concetto molto più complesso, di dover introdurre un cambiamento comportamentale, di principi e regole nella vostra organizzazione: come “la convincereste” in assenza di meccanismi di feedback cosi immediati come quello di una scottatura?

Il feedback del sistema non è uguale alla somma dei feedback dei singoli

la maggior parte dei CEO e dei consulenti segue esattamente la prima strada del nostro genitore: cerca di imporre nuovi comportamenti concependoli in modo analitico, progettandone la messa in campo e forzandoli sui soggetti senza alcun processo esperienziale o di embodiment.

Mi si obietterà: “eh, ma l’organizzazione non è un bambino, è fatta di persone con delle capacità analitiche”, certo, ci mancherebbe, ma l’organizzazione non è la persona, la persona è il singolo neurone di un sistema la cui aggregazione crea il cervello organizzativo, ed è quel cervello che dobbiamo stimolare.

Allo stesso modo in cui, quando ci scottiamo un dito proviamo una sensazione di calore che non esiste fisicamente in tal forma all’esterno del nostro corpo ma viene integralmente generata dal nostro cervello, un buon intervento trasformativo non può consistere nel convincere con una pura descrizione analitica come l’energia cinetica delle molecole d’aria prossime alla fiamma sia pericolosa per il nostro organismo. E’ il sistema stesso a doverlo in qualche modo sperimentare attraverso le proprie sensazioni sulla base delle quali sviluppare poi gli opportuni meccanismi correttivi. Potete spiegare a vostro figlio in mille modi quanto il fuoco sia pericoloso, ma solo dopo essersi scottato per la prima volta lo capirà veramente. E dato che nei casi di cambiamenti comportamentali più complessi non esiste nemmeno una definizione condivisa (come quella a livello organico) di piacere e dolore, non possiamo sapere ex ante quale concetto di “dolore o piacere” interno ogni organizzazione possa creare per se stessa finchè di fatto non lo fa’. Comunicarle quello di altre organizzazioni sarebbe quindi inutile.

Per osservarsi e riflettere su sè stessa in modo differente l’organizzazone deve sperimentare qualcosa di differente, qualcosa che ne alteri il livello di consapevolezza. Non bastano un CEO o un manager illuminati, comunicare il cambiamento, è necessario invece progettare perturbazioni autocorrettive.

Progettare esperimenti organizzativi

A nostro avviso questo si può fare solo con continui esperimenti di cambiamento partecipativo delle proprie pratiche, e con continue riflessioni collettive votate al costruire un’immagine della realtà sufficientemente focalizzata da essere condivisa e al contempo sufficientemente sfocata da non pretendere di essere esaustiva.

Anche quando confinata ad un singolo team una sperimentazione ben progettata (ad esempio: ben comunicata) tocca l’intero sistema ossia l’intero insieme delle persone che ne fanno parte. Ed è per questo che secondo noi ogni vera trasformazione collettiva è necessariamente partecipata. Ogni persona è il neurone di un cervello organizzativo aggregato, con la moltitudine dei loro canali di relazione questi neuroni creano ciò che l’organizzazione è nella pratica, non è possibile ridisegnare a tavolino queste relazioni, perchè esse vanno oltre l’organigramma e sconfinano nel ben più vasto dominio della comunicazione umana.

in sostanza nuovi livelli di consapevolezza di questo cervello organizzativo sono necessariamente autoindotti dall’esperienza, così come lo sono quelli del cervello organico. E il vero cambiamento è quello che si sceglie di fare grazie a quella consapevolezza.

Siamo convinti di una cosa: che la realtà sia, nella sua complessità, inconoscibile da parte di un unico attore, o meglio che il prezzo del tentare di spiegarla tutta sia troppo alto, e se si avesse il tempo e gli strumenti per farlo si scoprirebbe che ogni attore ha le proprie “razionali” (nel senso di “basate su una qualche forma biologico/organica di configurazione del proprio cervello”) motivazioni per agire esattamente come agisce, motivazioni che a loro volta includono una differente prospettiva della realtà rispetto ad altri attori. In un simile scenario fare diagnosi che spieghino la realtà nella sua interezza e progettare conseguenti piani di change management efficaci è sostanzialmente impossibile. Certo un singolo attore, se ne ha potere, può forzare l’organizzazione a cambiare in qualche modo concepito a tavolino, ma la certezza che tale cambiamento sia ottimale, è fortemente minata dal visus limitato di una sola mente, il vero cambiamento è quello che si ottiene quando, una volta privata dell’energia trasformativa di quella singola mente , l’organizzazione non tornerebbe più al suo stato originale. Questo è il tipo di qualità a cui dobbiamo puntare nell’intervenire sulle nostre organizzazioni. Quante volte l’avete visto succedere? Poche? Ma allora perchè non stimolare quel cervello, da subito, con una strategia differente dalla pura “spiegazione di cosa sia il fuoco”?

--

--