Le tre forze che determinano la realizzazione del proprio proposito personale

Andrea Faré
Leapfrog team

--

Ognuno di noi percorre un cammino professionale differente, ed ognuno di noi lo percorre ad un differente livello di consapevolezza. Alcuni sembrano riuscire a vivere vite incredibili con grande facilità, altri invece sembrano scontrarsi con muri invalicabili in ogni direzione. Alcuni riescono ad essere felici anche con poco o niente, altri vivono in un’ansia perenne da accumulo di beni o status e, nonostante si collochino nei primi percentili delle categorie standard di benessere, sono eternamente insoddisfatti. Alcuni danno importanza al lavoro, al senso di realizzazione, e mettono in secondo piano ogni altro aspetto, altri considerano il lavoro un male necessario, e lo vivono come un mezzo per dare maggiore qualità al poco tempo libero che rimane loro, quando hanno finito… Nessuno di questi percorsi è poi sempre coerente molti di noi attraversano tutti questi stati differenti nel corso della propria esistenza.

Sono giunto alla conclusione che nessuna strada sia giusta, e nessuna sbagliata. In fondo, il senso di appagamento intrinseco di cui ognuno abbisogna è anch’esso soggettivo e viene plasmato dal nostro cervello sulla base delle nostre esperienze, della nostra educazione e del tipo di conferme/smentite che abbiamo vissuto fino al momento in cui ci poniamo la domanda.

Ci sono tuttavia alcuni tratti comuni che paiono emergere, nelle forze che tra loro lottano per contribuire a determinare quello che diventiamo nel corso della nostra esistenza, e che a mio avviso, se ben gestite , anche tenendo ferme le condizioni espresse nel paragrafo precedente, possono modificare un percorso apparentemente soggetto a troppe condizioni esogene.

Senza avere la pretesa di vantare competenze in campo psicologico psichiatrico o filosofico, e dal basso di un esperienza a sua volta soggettiva di cui condividerò alcuni elementi salienti, vorrei dare forma alle mie idee teorizzando l’esistenza di 3 forze/componenti con cui ognuno di noi è costretto a confrontarsi quotidianamente e la cui interazione da forma alla nostra felicità, al nostro senso di realizzazione e alla nostra identità all’interno di una collettività.

Le tre “forze” in gioco

L’ Ego:

E’ una forza di auto protezione, che stabilisce la nostra identità e cerca di soddisfare i nostri bisogni quanto meglio crede possible. Il prezzo che paghiamo per questa difesa è la tendenza dell’ego a resistere a crescita e cambiamento, a cui esso oppone una resistenza naturale.

L’ Animo (Soul):

E’ la forza che ci spinge inconsciamente verso la realizzazione della nostra vera ragione d’essere (purpose*), ossia del tipo di differenza positiva che avremmo le capacità di generare nel mondo se fossimo privi di ogni altro condizionamento. L’animo è custode del purpose, ha la responsabilità della nostra crescita e non gli importa quanti soldi guadagnano o quale sia il nostro livello di comfort con le esperienze a cui ci sottopone. Può guidarci verso esperienze spiacevoli solo per farci crescere ( e questo confonde l’ego, che di mestiere fa il protettore dal dolore e dal fallimento)

*=uso il termine purpose perchè non sono appagato da nessuna delle sue traduzioni italiane, ognuno sembra non rappresentare una quota di significato essenziale: proposito, scòpo, ragion d’essere….

Il Ruolo (Role):

Più che una forza è una sorta di contenitore, la parte che ci troviamo a “recitare”, a svolgere all’interno della società, è l’insieme delle aspettative che gli altri (persone, organizzazioni per cui lavoriamo o con cui interagiamo) nutrono verso di noi. Ognuno di noi accetta o decide spontaneamente di calarsi in uno o più ruoli (marito moglie, manager, pompiere, poliziotto, prete), è praticamente impossibile vivere in una società senza ricoprire almeno un ruolo.

Ora vediamo come queste tre componenti interagiscono e dialogano per definire chi siamo.

Dinamiche (virtuose e non virtuose) d’interazione

L’animo, come già detto, conosce la nostra ragion d’essere (purpose), ossia sa quale cambiamento/impatto positivo siamo destinati a produrre nel mondo. Con destino, in questo contesto, non intendo nulla di predeterminato, bensì la realizzazione teorica del nostro massimo potenziale, che sta a noi liberare perché sia messo a frutto. Dicevo l’animo lo conosce perché a livello esperienziale si misura più e più volte, nel corso della nostra vita, non tanto con ciò che amiamo e che ci piace veramente fare, quanto con ciò che ci riesce veramente bene e saremmo probabilmente destinati a fare se non avessimo alcun vincolo (il fatto che ci piaccia è nella maggior parte dei casi una conseguenza di questa pre-condizione). Questa conoscenza del purpose da parte dell’animo è tuttavia incosciente, la nostra coscienza è dominata invece dall’ego che non è molto interessato a questi aspetti profondi, e si limita a garantirci, con spirito pratico, il senso di sicurezza necessario a rimanere in un equilibrio che sia ancorato al contesto in cui viviamo. Per sentirsi appagato l’ego ha bisogno di vederci ricoprire un ruolo che soddisfi le garanzie di cui ha bisogno, perché l’ego è deputato al contatto con la realtà e nei confronti della consapevolezza svolge un ruolo di mediazione.

Per scoprire quale sia il nostro purpose, ma soprattutto per perseguirlo, dobbiamo negoziare col nostro ego, perché esso accetti di fare due cose:

1) lasciarci comunicare col nostro animo in modo più immediato, per aspirare ad un livello più alto di consapevolezza

2) scrivere insieme a noi le condizioni a cui esso (l’ego) accetterebbe di lasciarci perseguire il purpose una volta individuato.

il primo punto richiede una notevole attività introspettiva accompagnata da opportuni stimoli esperienziali ed in alcuni casi supporto da parte di un coach personale che sappia aiutarci con le domande giuste.

Riflessione personale: forse anche complici le dimensioni del mio ego ho scelto il percorso in solitudine, ripensandoci un po’ di aiuto mi sarebbbe servito

il secondo richiede di intrattenere una sorta di discussione tra noi e il nostro ego per stabilire un set di condizioni minime da rispettare per svolgere i nostri esperimenti di ricerca e perseguimento del purpose.

Riflessione personale: nel mio caso, ho dovuto definire ex-ante quali fossero le condizioni di stabilità finanziaria minima che il mio ego avrebbe potuto accettare, e per quanto tempo avrebbe sopportato una fase di sperimentazione)

Ognuno ha un purpose personale differente, il mio, ad esempio, almeno al livello di consapevolezza a cui sono giunto ora è stato determinato nel corso di un percorso di un paio d’anni di successive rielaborazioni, ed è questo:

“Aiutare i team e organizzazioni a riconoscere le forze che minano l’espressione del loro massimo potenziale, e mostrar loro un possibile cammino per superarle, liberando l’intelligenza collettiva”

una volta scoperto il nostro purpose, abbiamo bisogno di metterlo in pratica e per farlo, ossia per produrre nel mondo l’impatto che siamo destinati a generare, dobbiamo inquadrare questo purpose all’interno di specifici strumenti che lo calino nella società in una modalità in qualche modo codificata e riconoscibile.

Questo può essere fatto trovando uno o più ruoli attraverso cui esprimere il purpose. Può’ trattarsi di ruoli che ricopriremo in un’ entità esistente il cui purpose organizzativo sia sovrapponibile in massima parte al nostro purpose personale, in alternativa dovremo creare noi stessi una nuova entità codificata (una sorta di organizzazione mono-ruolo)

Riflessione personale: credo che per caratteristiche personali il ruolo di coach/trainer sia quello che mi si addice di più e lo sto attualmente svolgendo sia da solo che per conto di organizzazioni il cui purpose è sovrapposto al 90% col mio — es: “Riscrivere il futuro delle organizzazioni, catalizzare l’evoluzione di organizzazioni inclusive” — )

L’individuazione del ruolo corretto è fondamentale perché è condizione necessaria al nostro ego per acquisire conferme rispetto alla qualità della negoziazione che ha prodotto questo percorso, e coscienza rispetto al fatto che è stata fruttuosa. Il ruolo tranquillizzerà l’ego, rendendolo più fiducioso nei confronti della capacità dell’animo di contribuire ad orientare chi siamo. Ne scaturirà quindi un percorso virtuoso di sperimentazione ed esplorazione continua che ci migliorerà e ci farà crescere.

Anche se non abbiamo il coraggio di affrontare questo percorso, la conoscenza di questo meccanismo virtuoso può’ metterci in guardia rispetto al rischio di percorrerlo nel verso opposto, che è poi quello che accade a molti di noi.

La maggior parte di noi infatti, non fa mai i conti col proprio purpose perché non sospetta nemmeno che esista oppure perché crede che esista ma che sia qualcosa di esterno, che riceviamo per apprendimento o tramite una qualche forma di illuminazione. Lo crediamo perché siamo stati condizionati dal contesto in cui siamo cresciuti (scuola, mass media, educazione ) , un contesto che ha a sua volta assunto queste caratteristiche perché per molti millenni l’uomo ha avuto la sopravvivenza come scopo principale, e il modo più facile per sopravvivere fino ad oggi è stato calarsi in un ruolo pre-confezionato, ancora prima di chiedersi se fosse veramente quello giusto per noi.

Lo scenario economico/tecnologico/sociale sta tuttavia mutando velocemente e i ruoli preconfezionati paiono produrre sempre meno remunerazione e sempre più insoddisfazione in chi li ricopre, la società sta diventando più liquida nelle sue categorie, e questo apre nuove forme di libertà espressiva.

Sul sentiero attendista che vede il purpose come qualcosa di esogeno, si finisce per accettare ruoliche ci vengono imposti esternamente (percorso formativo standard) o scelti sul cammino di minima resistenza (convenienza economica, sicurezza). Questo finisce per amplificare il peso dell’ego nel processo decisionale e pone fortissime barriere alla nostra capacità di cambiamento, nel tempo l’egosi irrigidisce e nessun cambiamento diventa più possibile, cause e scuse si moltiplicano: la moglie (o il marito), i figli, i genitori, il mutuo, il capo, la paura di diventare poveri etc etc…

Quando l’ego vedere rinforzarsi e confermarsi le proprie paure, stringe il cappio sull’animo e ci allontana dal nostro vero purpose, consegnandoci ad una vita che rischia di essere completamente insoddisfacente, o solo parzialmente soddisfacente.

Quando poi il ruolo non è alimentato da un buon purpose ma diviene solo cibo per l’ego, esso rischia di trasformarsi in status, questo succede molto spesso nelle organizzazioni a loro volta non orientate al purpose: si ha una fusione completa tra personalità e aspettative organizzative e conseguente decadimento di entrambe le sfere, lo status amplifica il bisogno di riconoscimento e, in qualche modo, di dominio sugli altri, la ricerca di uno status ancora migliore diviene spesso una vera e propria droga. Allo stesso modo quando ego e animo non riescono a trovare un compromesso in un ruolo adeguato che sia almeno parzialmente espressione di un purpose chiaro, si scatena una sorta di ansia che crea instabilità, e non ci sentiamo realizzati.

E’ possibile invertire il percorso? Io credo sia possibile, conosco molte persone che l’hanno fatto, e credo di aver imboccato questa strada a mia volta, ma credo che nessuno abbia ancora sviluppato un metodo generalizzato per farlo.

In ogni caso, prendere coscienza di questi meccanismi può esserci utile per esaminare la nostra vita da un differente livello di consapevolezza, e qualcosa, da questo nuovo livello di consapevolezza, possiamo cambiarlo, se non per noi ma almeno per i giovani.

Se vogliamo evitare che i nostri figli corrano i nostri stessi rischi è a mio avviso fondamentale procedere ad un rinnovamento del sistema educativo/scolastico, in una direzione che promuova l’individuazione, il testing continuo e la coltivazione dei talenti personali e non incanali i ragazzi verso formine professionali pre-stampate in cui colare come sabbia inerte perdendo gran parte della propria individualità e della capacità di evolversi costantemente.

Nel corso della mia vita, ho avuto la fortuna, e la determinazione di effettuare test molto estesi, ricoprendo i ruoli più disparati: allievo pilota militare, musicista, sviluppatore software, IT architect, manager. Questa sperimentazione, che valutata con la lente dell’osservatore tradizionale da sicuramente impressione di grande ncoerenza, è in realtà stata vissuta da me nella massima serenità, ripartendo spesso da zero, ed ha contribuito a forgiare il mio purpose odierno in modo “incosciente”. Non è un caso infatti che esso si fondi sulla messa a fattor comune di esperienze organizzative accumulate in contesti molto disomogenei tra loro. Questo non significa affatto che io sapessi che sarei arrivato fin qui in questo modo, anzi, quanto di questo percorso sia effettivamente stato deciso direttamente dalla mia volontà non è affatto importante , la cosa importante è accettare che il purpose sia il risultato di un percorso di scoperta e avere il coraggio di percorrerlo.

Andrea Farè.

--

--