“Attraverso il gioco, mi sono ri-conosciuto”

La sfida dell’e-learning e della gamification in Italia

Alessandro Giovanazzi
Learning Diaries
Published in
11 min readJul 24, 2018

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Intervista a Gero Miccichè. Esperto di Game design, di e-learning, di progettazione di sistemi innovativi per l’apprendimento e… di libri! Se mi venisse chiesto di descrivere una persona appassionata, ma davvero, prenderei tantissimi spunti da lui. Appassionato di gioco, sta cercando (e riuscendo) di farne il proprio lavoro. Sul serio! Perché l’apprendimento attraverso il gioco (digitale) può essere universale, come un libro, e deve essere reso patrimonio condiviso di tutti.

Oggi proveremo a guardare con lui il game design da una prospettiva totalmente ribaltata. Infatti si parla sempre di quanto la gamification (che è parte del game design) sia utile per l’apprendimento di studenti e professionisti. Ma non ci si chiede mai quale percorso, anche personale, porti i professionisti dell’apprendimento a sposare questo particolare approccio. Oggi proveremo a colmare questo gap con Gero. E scopriremo che il Game Design non è solo una moda dell’ultimo momento, ma anche l’esplicitazione professionale di una storia che è spesso anche personale.

Enjoy!

Chi è Gero Miccichè?

Prima di tutto uno che ha problemi di sintesi di fronte a questa domanda: mi descriverei come una persona che si è messa sempre in discussione e periodicamente “in crisi”. “Crisi” in senso strettamente etimologico: la parola viene infatti dal greco κρίννω e, nel suo senso più profondo, vuol dire “giudicare”. “Essere in crisi” è infatti, nella sua accezione costruttiva, essere in una “fase di giudizio”. La crisi è un’occasione per conoscersi meglio prendendo le mosse da qualcosa che manca, da uno squilibrio. È la molla che muove la persona verso altre direzioni, e in fondo credo sia il vero filo nascosto della vita.

Quindi ti definiresti una persona in movimento?

Per risponderti, torniamo alla domanda iniziale: mi sono laureato in Scienze giuridiche ed economiche. Durante l’ultimo anno di liceo classico ero proiettato verso la facoltà di filosofia, anche se ero indeciso tra vari indirizzi di studio: quell’anno suonava però Bob Dylan a Milano, e io cercavo una scusa per vederlo. Il caso volle che il concerto fosse lo stesso giorno dei test d’ingresso alla Bocconi, in aprile. Trovai la mia scusa, li affrontai quasi con disinteresse, la sera mi godetti il concerto e quasi me ne dimenticai: poco prima degli esami arrivò però l’esito, positivo, e così, fra l’indecisione e l’estate incombente, decisi di continuare su quella strada.

Conseguita la triennale, decisi in un primo tempo di fermarmi lì. Sentivo in qualche modo di aver compresso la mia natura umanistica, mi mancava qualcosa: nel 2005, proprio per questa ragione, avevo fondato una rivista letteraria (El Aleph, d’ispirazione chiaramente borgesiana) con altri tre ragazzi dell’università Statale, una rivista che è durata circa 10 anni fra pubblicazioni cartacee e online. Al contempo sentivo di dover imparare molto sul piano professionale: avendo in Sicilia un’emittente televisiva storica di famiglia, Teleacras, pensai che sarebbe stato un peccato non accumulare un prezioso know-how. È lì che ho fatto la mia prima esperienza lavorativa, sia in ambito marketing sia nella produzione televisiva.

Ma, inevitabilmente, dopo circa tre anni, qualcosa ha ricominciato a formicolare dentro me, e ho capito che bisognava dare nuovamente una scossa: Teleacras mi aveva dato tanto, ma avevo bisogno di un nuovo percorso. Tornai a Milano, mi iscrissi alla specialistica, sempre alla Bocconi, per terminare un ciclo e cominciare poi a costruire il mio vero futuro, facendo qualcosa che mi piacesse davvero. Avevo deciso che non sarei tornato più in Sicilia, terra bellissima ma, ahimè, amara per i suoi figli. Ma “life is what happens while you’re busy making other plans”, cantava John Lennon, nel bene e nel male e, mentre scrivevo la tesi di laurea, è venuto a mancare mio padre, che reggeva tutte le attività di famiglia. Tornare questa volta era un dovere più che una scelta, dovevo riprendere le redini dell’azienda di famiglia in un momento che non esito a definire difficile, sia a causa della crisi di settore, sia perché mio padre, nell’ultimo periodo della malattia, non aveva più la stessa forza di prima. Ci sono voluti più di quattro anni di duro lavoro, durante i quali ho imparato tanto sul settore, ma anche sulla gestione aziendale e dei team, ma sono riuscito alla fine a rimettere in sesto i conti dell’azienda, portando a termine, in parallelo, un piano di digital transformation che l’ha lanciata nel marketing digitale ampliandone l’offerta commerciale. Ho ricominciato a guardarmi attorno finché non è nata una collaborazione a distanza con la stessa società che in seguito mi ha assunto come Digital Learning & Gamification Designer, che è il ruolo che ricopro in Excellence Education, una società che si occupa di Innovative change management & capability buiding, che opera a Milano.

Appunto, tu ti occupi di didattica a livello aziendale. Prima di approcciarlo, però, ti va di raccontare che cosa vedi nella didattica italiana all’interno delle scuole?

Vedo innanzitutto una scuola senza risorse, un malato a cui vengono sottratti i soldi per le cure. Lo Stato pare non credere nel mestiere dell’insegnante, uno dei più nobili e importanti per una società civile. Gesualdo Bufalino diceva: “La mafia sarà vinta da un esercito di maestri elementari”. E invece ci troviamo con docenti giovanissimi con del potenziale straordinario che non riescono a entrare di ruolo. È sconfortante, ed è uno dei principali problemi del nostro paese: il gap formativo con altre nazioni avanzate rischia così di non colmarsi mai.

E gli studenti? Tu che ti occupi di gamification cosa ne pensi?

Oggi i ragazzi sono esposti a innumerevoli stimoli. Questo ha comportato una maggiore reattività e ovviamente uno spostamento nell’asse degli interessi dei più giovani, e di conseguenza cambia anche la loro necessità nell’insegnamento. Negli ultimi tre anni ho avuto il piacere di lavorare con oltre 200 studenti che hanno fatto l’alternanza scuola-lavoro nella mia Tv, ed è un’esperienza durante la quale, mentre insegnavo a qualcuno, credo di aver imparato tanto.

Ho elaborato un percorso formativo in nuovi media e comunicazione, mettendo in luce il passaggio dalla Tv classica a canali più moderni come Netflix, Youtube, Twitch, i social network, con un lavoro finale che consisteva nella creazione di una rubrica televisiva vera e propria. Gli studenti hanno risposto con entusiasmo, sentivano le tematiche vicine e interessanti. Quel che mi ha colpito è che tra i tanti gruppi e tematiche nati in quei tre anni nessuno abbia mai voluto trattare la letteratura. Non me ne capacitavo, ho capito col tempo che sono spaventati dal libro, che lo vedono come uno strumento lento e costrittivo, “scolastico”, e che non c’erano docenti in grado di consigliar loro un libro che potesse iniziarli alla lettura senza annoiarli.

Che cosa li interessava?

Tanti temi contemporanei, ma un tema costante in ogni classe è stato quello dei videogame, ovviamente.

Ed è anche così che è nata GameCompass, una testata nata dall’esigenza di trasmettere un approccio critico al mezzo videoludico, visto come opera, oltre che come strumento d’entertainment. Attraverso lo spazio televisivo prima e quello online poi, GameCompass è di fatto la prima scuola di giornalismo videoludico, quantomeno in Italia. Un insegnamento gratuito del lavoro del giornalista di settore, aperto a chiunque abbia passione, volontà e la determinazione necessaria a imparare questo mestiere. E credo che mai come oggi, in cui si parla di ludopatia e dipendenza da videogame in modo abbastanza confuso, un insegnamento del genere sia necessario.

I maestri di oggi sono ancora in grado di spiegare le regole del gioco della realtà digitale ai loro allievi?

In primo luogo c’è un problema di aggiornamento. Come molte categorie professionali, anche professori e maestri faticano oggi ad aggiornarsi rispetto al fenomeno digitale che va dispiegandosi. È il problema del change management. Inoltre il lavoro dei professori oggi è aumentato anche in termini quantitativi, sottraendo loro anche quel tempo necessario per tenersi al passo con i nuovi strumenti e metodologie. La gamification come metodo formativo si sta facendo strada, ma in Italia fa ancora fatica ad attecchire. Eppure è un metodo di grande efficacia, applicabile in tutti i contesti non ludici con grandi risultati in termini di engagement e di apprendimento effettivo. Proprio per questa ragione cresce anche la produzione di serious game, veri e propri videogame con finalità educative che cercano di creare sinergie fra intrattenimento e formazione.

Invece come procede la diffusione del game design come approccio?

Dall’unione di principi di game design e di instructional design stiamo avendo ottimi risultati da parte delle società che hanno voluto crederci: purtroppo varie aziende italiane sono timorose riguardo i nuovi metodi. In varie nazioni estere la musica è già un’altra. Penso al museo dello spionaggio di Berlino: un museo totalmente “gamificato”, in cui il visitatore si trova a decifrare veri codici, a simulare l’attraversamento di una stanza con dei laser, e che, tra linguaggio cinematografico e documenti storici, riesce davvero a spiegare l’atmosfera e la realtà del mondo che cerca di descrivere. In Italia uno dei pochi ad aver recepito e attuato questi metodi è il Museo della Scienza e della Tecnologia Leonardo da Vinci di Milano, dove Luca Roncella è riuscito a integrare una forte componente di gaming nelle sezioni espositive, con grandi risultati.

Ma perché proprio la gamification?

Più che la gamification, direi il game design, di cui la gamification costituisce solo l’aspetto di applicazione di processi ludici in contesti non ludici. Ma la domanda potrebbe essere: perché il gioco? Ecco, io sono sempre ritornato al gioco perché dietro al gaming e alle sue dinamiche c’è tutto un universo emotivo che si riaccende in noi. Ma ha anche un forte impatto cognitivo, permettendo di semplificare la complessità e di incidere maggiormente sul piano mnemonico. Il creatore di The Sims, Will Wright, sostiene che l’evoluzione dei videogame è strettamente legata all’evoluzione delle emozioni dell’umanità, e credo sia un punto centrale.

Banalmente, quando sono tornato in Sicilia dopo la morte di mio padre, la prima cosa che ho fatto, nel tentativo di rimettere ordine in me stesso, è stata quella di andare a reinstallare la mia vecchia PS2. Tecnologia datata. Era appena uscita la PS4, ma non credo sia un caso: avevo quella console da 13 anni ed è stato proprio attraverso quella che ho potuto lanciare un ponte con il mio passato, rispondendo al bisogno di riconnettere me stesso alla mia parte più autentica.

Pensa che, per varie ragioni, mi ero precedentemente imposto di allontanarmi dai videogame per qualche anno. Successivamente ho capito quanto fosse stato un errore, innaturale. Era stato come disconnettermi da una parte di me

Ecco, in qualche modo, attraverso il gioco, mi sono ri-conosciuto. Sono ritornato in contatto con una parte importantissima di me stesso, della quale mi ero quasi dimenticato. E penso che pochi mezzi (come la letteratura e, soprattutto, la musica) abbiano questa potenza su un individuo. Ed è anche per questo che la gamification e il game design sono così efficaci in ambito formativo: perché sfruttando meccanismi come quelli di interazione, sfida e reward stimolano una parte di noi che non è solo legata all’intelligenza, ma a più sfere contemporaneamente, generando un engagement difficilmente raggiungibile altrimenti.

Quindi tu dici che giocare è sostanzialmente un ponte che riallaccia fratture.

Il gioco ti permette di costruire ponti non solo con te stesso, ma anche con gli altri. Pensiamo all’uso che se ne può fare in termini di team-building. La mancanza di un obiettivo comune può de-generare il nostro modo di stare assieme, quando al contrario la gamification può ri-generare delle pratiche sane nelle dinamiche cooperative.

Con l’avvento della didattica digitale non corriamo il rischio di perdere per strada la possibilità di un rapporto personale? Con un maestro per esempio?

La sfida che ci porrà il futuro sarà quella di capire la giusta misura fra fruizione di contenuti digitali e la necessità di un rapporto di formazione “face-to-face”. Certo è che l’e-learning ha svariati vantaggi, dall’applicazione di principi di game design che dicevamo, alla possibilità di applicare metodi come lo Storytelling e il Microlearning che, uniti alla gamification, risultano di grande efficacia anche in contesti non ludici. Un progetto formativo digitale di qualità che abbia un game design ben ragionato e un buono storytelling può diventare inoltre un prodotto universale su certi temi, al pari di un libro o di altre opere dell’ingegno e della creatività.

Però il rapporto scompare..

Non è detto: prova a pensare un progetto e-learning come un’opera. Romanzi come “Guerra e pace” di Tolstoj, o “Memorie dal sottosuolo” di Dostoevskij, che sono opere universali. J.D. Salinger diceva: “Quelli che mi lasciano proprio senza fiato sono i libri che quando li hai finiti di leggere e tutto quel che segue vorresti che l’autore fosse tuo amico per la pelle e poterlo chiamare al telefono tutte le volte che ti gira.”. Non hai bisogno di incontrare personalmente gli autori per entrare in contatto con loro. Le loro opere creano dei ponti, proprio in ragione della loro universalità. Da questo punto di vista forse il più grande esempio è Leonardo Sciascia, il quale non a caso diceva di accettare gli si riferisse l’epiteto di “Maestro” solo nella misura in cui si sentiva un maestro elementare, proprio perché la sua missione di scrittore era quella di insegnare.

In termini di profondità e respiro, l’e-learning non è di certo paragonabile a un’opera letteraria tout-court, non oserei mai dire questo, ma di certo è utile assumerne l’approccio. Però un progetto formativo andrebbe affrontato con lo stesso spirito con cui l’artista affronta il processo creativo di una grande opera, ma avendo bene in mente il pubblico di destinazione. I game designer oggi hanno ben presente questo concetto di base e, se spesso è legato all’entertainment, abbiamo autori come Hideo Kojima, Fumito Ueda, Goichi Suda, Josef Fares, Jenova Chen che riescono a regalare opere di grande intrattenimento e profondità.

Ecco, questo dovrebbe essere un imprescindibile punto di partenza della didattica e-learning, riuscire a codificare grandi insegnamenti all’interno di un corpus omogeneo. È un principio che vale per un’opera letteraria come per un progetto di didattica digitale, che può oggi avvalersi anche del game design, oltre che dello storytelling.

Quanto detto da Gero durante l’intervista ha messo in discussione una mia convinzione profonda, granitica. Ero convinto che senza maestri non ci potesse essere vera educazione. Ma il parallelo con i libri è stata come la chiave per provare a guardare la stessa realtà con occhi nuovi.

Se l’esperienza dell’incontro con un maestro può anche essere mediata, come nella lettura di un grande libro, perché non lo può essere anche a livello digitale? Attraverso metodi come quelli del game design?

Scritto, con cura, da Alessandro Giovanazzi nella sezione Pillars di Euristika!

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Alessandro Giovanazzi
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