Chi forma i formatori?

Le radici del mio essere formatrice

Biancamaria Cavallini
Learning Diaries
5 min readOct 18, 2018

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Il mio profilo professionale è quello di una psicologa del lavoro che si occupa di formazione. Una formatrice, insomma.

La formazione è un mestiere di continui cambiamenti, di aggiornamenti costanti e sfide sempre diverse.
Il mio essere formatrice ambisce a portare consapevolezza alle persone che ho la fortuna di avere in aula, che siano genitori nelle aziende, disoccupati, giovani nelle scuole, dipendenti e manager delle imprese.
Il mio essere formatrice si porta appresso radici che arrivano dai luoghi più diversi. Radici che hanno la forma di ponti che uniscono le mie esperienze, il mio passato e il mio presente, le persone che ho incontrato e quella che sono oggi.

Ho imparato ad essere formatrice— e continuo ad impararlo — attraverso e grazie l’esperienza di persone che lo sono state prima di me, che lo sono da più di me, che lo sono insieme a me e — a volte — in concorrenza a me. Tuttavia, le radici più profonde del mio stare in aula, arrivano da tre insegnamenti che ho ricevuto e raccolto durante il mio percorso, ben prima di decidere di intraprendere il lavoro che faccio.

“Spiegatelo come se aveste davanti un bambino che nulla ne sa.”

Era il mantra del mio professore di filosofia al liceo. Era convinto che qualsiasi filosofo, qualsiasi pensiero o teoria, andasse spiegata in modo semplice, talmente semplice da renderla comprensibile a un bambino.
Le sue spiegazioni non seguivano sempre questa logica, ma durante le interrogazioni pretendeva che noi vi ci attenessimo.

Come formatrice, tengo sempre a mente questa sorta di regola. Non amo le persone che si affidano a spiegazioni intricate, si riempiono a tutti i costi la bocca di termini inglesi o cercano in tutti i modi di far suonare di rilievo quello che dicono. Solo se si padroneggia a fondo un argomento si è in grado di spiegarlo anche a un bambino ed è per questo che scelgo sempre di parlare chiaro, piuttosto che forbito. Si può essere accurati e precisi anche nella semplicità.
L’equazione “linguaggio forbito=competenza” vale solamente ad alcune condizioni. E tendenzialmente le persone ascoltano più facilmente, con maggiore interesse e più a lungo, persone che hanno un linguaggio senza troppi fronzoli. Dritti al punto.

“Non guardate chi annuisce, ma chi vi guarda perplesso.”

Lo ripeteva spesso una mia professoressa universitaria. Diceva che in aula non ha senso alimentare il proprio narcisismo, guardando le persone che annuiscono o sorridono mentre ti ascoltano. Quelle le hai già convinte.
Bisogna invece tararsi sui propri “persecutori”, coloro che rimangono perplessi, indossano strane espressioni in viso, non si trovano d’accordo. Sono loro a spronarti a fare meglio, sono loro a darti l’effettiva misura di come il tuo intervento stia procedendo.
Questo — ovviamente — non si traduce in un dover conquistare ogni persona presente in aula: sappiamo bene che non si può piacere a tutti. Tuttavia, se il proprio riferimento sono le persone che in qualche modo si ha già coinvolto, niente spingerà a fare meglio e a tentare di coinvolgere anche le altre.

Certo, guardare i propri “persecutori” non è semplice, rimandano al tuo insuccesso, piuttosto che al tuo successo, eppure farlo è l’unico modo per sentire davvero, sporcarsi le mani, non dare nulla per scontato e sfidarsi costantemente. L’unico modo per migliorarsi.

- “Cosa fai?”
- “Studio.”

Mio padre fa un lavoro che poco c’entra con la formazione, ma che prevede, se lo si vuole fare bene, un aggiornamento costante. Ho ricordi di lui seduto sul divano con il computer in grembo e la solita risposta: “Studio.”

Mi ha sempre colpito la scelta della parola. Non “leggo”, né “mi aggiorno”, nemmeno “mi informo”. Studio. E lo studio implica apprendimento e impegno, non soltanto interesse e vaga attenzione. Ho imparato da lui che non si deve mai smettere di studiare se si fa una professione che implica continui aggiornamenti. Che, per quanto mi riguarda, è anche una delle parti più belle del lavoro che faccio. Ho una scusa più che valida per divorare libri, ad esempio. Ed è (anche) la passione che metto nel divorare ciò che leggo che tento di portare in aula.

Chi forma i formatori, dunque?

La formatrice che sono non lo devo solamente a mio padre e ai miei due professori, ma, come citato in premessa, ai colleghi e formatori con cui lavoro (in primis) e a tutti coloro con i quali ho l’occasione di vivere anche pochi momenti. Se le mie radici sono radicate al di fuori del mio ambito lavorativo, è anche vero che il confronto con i colleghi mi permette di aggiustare il tiro, di mettermi alla prova sul campo e di trarre ispirazione da chi è diverso da me. In tal senso, ho la convinzione che la multidisciplinarietà sia — nella formazione come in tutto il resto — la chiave che permette di fare la differenza.

E poi ci sono — ovviamente — le persone con cui condivido l’aula, fonte di costante confronto e voglia di migliorarmi. Non a caso si dice che i formatori, in aula, siano i primi a imparare.

Qualcuno una volta mi ha detto che è necessario essere una spugna, assorbire e trattenere tutte le esperienze e gli incontri degni di nota. A me piace pensare che le spugne abbiano radici e che siano queste radici a fare la differenza.

Scritto, con cura, da Biancamaria Cavallini su Euristika!

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Biancamaria Cavallini
Learning Diaries

Psicologa del lavoro e formatrice, (quasi) nativa digitale, appassionata di scrittura e ricercatrice di consapevolezza.