“Dovevo mettermi in discussione per prima io”

Perché il primo modo di innovare l’educazione è guardare la persona e il grido che lancia

Alessandro Giovanazzi
Learning Diaries
7 min readMar 6, 2019

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Armando Persico è stato nominato miglior professore in un numero sterminato di concorsi e contest, non solo a livello nazionale, ma soprattutto internazionale. Volendone selezionare solo alcuni: “JA-YE Europe Teacher of the Year Award” nel 2010, “Top 50 Teacher in Italy 2017 — Italian Teacher Prize”, “Top 50 Teacher in the World 2017 — Global Teacher Prize” nel 2017, “GESS Education Awards 2019 — Finalist for the category “Innovation in Education Awards” nel 2019. In questa sua intervista, fattagli ormai diversi mesi fa, mi raccontava del suo desiderio di mettere a disposizione la sua esperienza per far crescere gli educatori di domani. A quanto pare ci sta pure riuscendo, col suo nuovo lavoro in JA Italia. Ecco quello che mi ha raccontato.

Chi è Armando Persico?

Armando Persico è un prof ricco di idealità, non di ideologie. Una persona che ha avuto la fortuna di incontrare persone che hanno avuto a cuore il suo bene, guardandolo non come mezzo ma come fine del proprio stare insieme. In realtà, inizio la professione di dottore commercialista e poi, attraverso degli incontri importanti, nasce il mio amore per l’insegnamento.

Da dove viene Armando Persico?

Vengo dagli insegnamenti dei miei genitori, grandiosi. Persone molto semplici, che mi hanno trasmesso la passione per il proprio lavoro. Mio padre si svegliava alle sei del mattino per fare il muratore con qualsiasi condizione di tempo, ma tornava sempre con il sorriso. Uguale mia mamma, camiciaia, si portava dentro questa bellezza per quel che si fa. Io vengo da lì.

Oggi si pone in modo sempre più forte il tema dell’orientamento alla scelta del percorso formativo e lavorativo. Quali sono le novità che intravedi nel panorama italiano?

Sarò controcorrente. Ma penso che l’alternanza scuola-lavoro, preparata in modo coerente, sia uno strumento importante in qualsiasi contesto scolastico. Lo studente può vedere gli aspetti positivi, ma anche negativi, di un certo lavoro, foss’anche il più umile.

Ho sempre portato i miei ragazzi a misurarsi con delle competizioni, anche internazionali, volte alla creazione di mini-imprese, così da permettere loro di confrontarsi con ragazzi di altre nazioni e di rendersi conto che paragonarsi a certi livelli sia uno strumento importante per crescere.

E i ragazzi di oggi come sono?

Chiedono subito le ragioni di quello che fanno. Non sono più disposti ad accettare una risposta preconfezionata o a sentirsi dire: “studia perché ti servirà in futuro”. E queste è la sfida più interessante e coinvolgente per noi educatori.

Spesso noi prendiamo decisioni importanti senza affidarci. Che suggerimenti daresti ai genitori e ai ragazzi? Qual è un modo intelligente per approcciare l’orientamento al lavoro?

Fare tutte le esperienze possibili, fin dalla scuola primaria. Perché magari, apparentemente, non sembrano c’entrare con il proprio percorso, ma sono esperienze che danno un’apertura mentale. Per esempio: noi qui abbiamo una kermesse denominata “Bergamo scienza”, che per venti giorni permette di incontrare Premi Nobel, ma anche ragazzi, che, in modo peer-to-peer spiegano aspetti scientifici a loro coetanei o a ragazzi più piccoli. L’apertura del territorio alla comunità scientifica permette ai ragazzi di confrontarsi subito con la bellezza della ricerca, dell’imparare un particolare per astrarsi e comprendere il generale.

Invece a volte noi educatori ci riduciamo al trasferimento del nostro “millesimo” di conoscenza, invece che aiutare ad aprire e aprirci all'infinito. Facciamo l’esempio del bilancio: il docente trasferisce com'è strutturato, che cos'è e il discente lo deve ripetere così come il docente l’ha trasferito. Allora lo riconosce con un bel voto. Lo studente e il docente sono contenti. I genitori sono contenti. Il sistema scolastico è contento. Un do ut des. Ma allo studente cos'è rimasto per davvero? Ha fatto esperienza di “bilancio”?

Se invece, per esempio, porto lo studente sul campo e gli faccio visitare un’azienda, si fa esperienza per davvero di “bilancio”. Imparerà e comprenderà che esiste una realtà più grande di quella che si sia mai potuto immaginare.

Un professionista mi diceva che troppo spesso noi, nelle aziende, le persone non le incontriamo, le misuriamo. Quello che tu racconti è diverso, ma trova spazio in un mondo che sembra andare in tutt'altra direzione?

Bisogna partire da questa domanda: io voglio il tuo bene? Oppure devo solo misurarti? È chiaro che si tratta di un cambiamento di mentalità. È chiaro che è una rivoluzione, perché non è più sul piano del do ut des. Io ti voglio talmente bene da essere disposto a rischiare su di te. Le aziende che hanno i migliori risultati sono quelle che impostano il loro rapporto col dipendente, perché tengono a lui come fine e non come mezzo.

È chiaro che questa cosa non può che partire dall'educazione. Come si mette a terra questa alternativa?

Ho avuto la fortuna di iniziare il mio lavoro da educatore in un ambiente dove il centro era la persona per davvero, grazie all'impostazione data dal dirigente scolastico. Questo mi ha insegnato a mia volta ad essere più attento a come stavano cambiando i miei studenti. E con loro è cambiata la mia didattica. Mentre tutto intorno lo “studiare per il dovere di studiare” andava progressivamente crollando, ho dovuto inventarmi un nuovo approccio: l’entrepreneurship education. Insomma, capivo che dovevo mettermi in discussione per prima io. Ho cominciato a proporre ai miei studenti in “situazione”, per aiutarli nel loro spirito di osservazione, nella loro creatività, nel capire come rispondere ai bisogni. Che è ciò che fa in realtà qualsiasi imprenditore. Ma non perché diventassero tutti imprenditori, ma perché interiorizzassero il mindset giusto per affrontare la vita e di conseguenza il lavoro.

Tu hai avuto dei maestri nella tua vita?

Il mio dirigente scolastico dei primi vent'anni di carriera. Con lui i consigli di classe, i collegi docenti erano tutti incentrati sulla domanda: perché faccio questo mestiere di prof? Per lui non era un momento burocratico. Non serviva solo per autorizzare le gite o per approvare i libri di testo, ma per farci prima di tutto noi le domande fondamentali.

La cosa che mi ha sempre colpito, dei maestri, è che ti cambiano la vita in istanti precisi.

È un istante che ti cambia la vita. Il maestro ti guarda e capisce il momento in cui stai lanciando un grido vero. Oggi abbiamo Wikipedia per le conoscenze. Invece è interessante capire il senso delle cose, elevarti pian piano anche per arrivare a farti le domande fondamentali, sulla vita.

Le discussioni su competenze, soft skill, hard skill, dominano la discussione in Italia. Cosa ne pensi?

Qualcuno le usa per riempire di contenuti convegni a volte anche sterili, però un senso di verità ce l’hanno. Perché il dato di fatto è che più andiamo avanti e più sono necessarie nei nuovi contesti lavorativi.

L’educazione cambia la vita degli studenti. Ma in che cosa cambia la vita di chi insegna? Perché vale la pena di fare questo lavoro?

Io non posso pensare di fare questa professione solo perché posso essere utile ai ragazzi. Almeno non in prima battuta. Io devo prima chiedermi a cosa serve a me fare questo lavoro. Che è un po’ quello che dicevo prima sui collegi docenti. Se non ci poniamo delle domande in prima battuta noi, come potremo poi farle ai ragazzi? Ricordiamoci che il docente prima di tutto propone sé stesso.

Concludendo: dove sta andando Armando Persico?

Questa è un’altra bella domanda. Devo dire che, anche per l’esperienza che ho, mi piacerebbe davvero essere d’aiuto ai giovani docenti. Avrei l’aspirazione di trasferire, di divulgare, di infondere fiducia e di mettere i giovani docenti in condizione di porsi a loro volta le domande giuste, aiutandoli in tutta la componente progettuale e di metodo.

E poi voglio continuare a “tirare fuori” il meglio dalle persone che aiuto a crescere. Non per niente la radice della parola “educare” vuol dire “tirare fuori”. Il mio compito è quindi di sviluppare le potenzialità che sono già insite dentro le persone in modo ontologico. Il nostro ruolo di educatori sta proprio nel tirarle fuori tenendo vivi lo stupore e la meraviglia. E questo cercando sempre di non ridurre i ragazzi a dati (ovvero voti).

Spesso invece ci fermiamo ai dati, associando la persona al valore che riesce a esprimere quando è valutata: se va male e non si sblocca è semplicemente perduta. Pensando al Manzoni, invece, l’Innominato ci insegna che ciò che hai fatto non determina mai fino in fondo ciò che sei.

Che è un concetto cristiano. Gesù non ha mai guardato la persona per il peccato che aveva commesso, ma l’ha guardata nella sua grandiosa infinitezza. Ritorniamo alla questione del maestro. Il maestro non ti guarda solo per quello che fai o per i risultati che produci, fossi anche il peggiore dei contestatori. Invece il maestro ti guarda per la persona che sei e per il grido che lanci. Indipendentemente dall'esito, il maestro ti prende sul serio dal punto di vista umano e ti dà sempre una possibilità di riscatto. E ti dice che puoi essere di più di quello che credi di essere, tirando fuori il meglio da te.

Scritto, con cura, da Alessandro Giovanazzi su Euristika!

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Alessandro Giovanazzi
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I am inspired by the idea of designing and coordinating innovative teaching and learning projects that promote people’s growth in study and work.