La linea rossa

Episodio 3

Alessandro Giovanazzi
Learning Diaries
8 min readJun 18, 2019

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Due stagisti. L’esperienza del primo lavoro. I desideri, le paure, l’inadeguatezza e la necessità di diventare grandi, in fretta. Il lavoro in Italia può essere raccontato in tanti modi. Qui lo si vuole fare nel modo meno scientifico possibile, attraverso gli occhi di Lucia e di Gianni.

Gianni entrò in un grande ambiente. Brulicava di persone, di energia e di confusione, almeno in apparenza. La struttura era di recente costruzione, ariosa, colorata, semplice e moderna.

Il lato di fronte a lui, quello lungo, era composto esclusivamente da grandi vetrate. Di fuori vedeva quello che doveva essere stato il cortile di un importante palazzo, segno che la società si era espansa in un secondo momento, acquisendo ed erodendo i cortili dei privati antistanti.

Intuì che se si fosse sporto avrebbe visto quel che rimaneva di uno dei tanti parchi interni, meravigliosi e nascosti, di Milano. Parco venduto, pezzetto dopo pezzetto, dalla borghesia impoverita per permettere a quella multinazionale della consulenza di espandersi. Rimaneva comunque qualche grande albero a testimoniare quella bellezza passata, con le foglie verdi che ondeggiavano allegramente a ogni sospiro di vento primaverile.

Tornando a guardare dentro, seguendo le grandi pareti finestrate alla sua destra, l’edificio sembrava proseguire indefinitamente. Era tutto un susseguirsi di tavolate delle forme più diverse, rettangolari, triangolari, tonde, ovali. I tavoli erano intervallati da divani strani, colorati e diversi. I diversi posti a sedere erano occupati da tanti ragazzi giovani che parlavano e gesticolavano di fronte ai loro PC.

Si rese conto che le molte persone sedute, o quasi addirittura sdraiate, sui divani stavano a tutti gli effetti lavorando. Rimase in particolare sconcertato da quello che capì essere lo spazio centrale dell’ufficio, una specie di piccola piazza circondata da divani appesi con delle corde al soffitto. Vide due ragazze che discutevano guardando i loro computer mentre dondolavano e capì che per quel giorno ne avevano fatto la loro postazione di lavoro.

Sempre alla sua destra, ma sul lato da cui era uscito con l’ascensore, invece si dipartiva un’intera fila di stanze con le pareti di vetro. Probabilmente servivano per sfuggire da quel rumore costante e incalzante. Delle piccole isole di pace e di silenzio per orecchie stanche. Ciononostante, pur essendo il rumore una presenza materiale, si accorse che non c’era una persona che non fosse concentrata. Il tutto avvenne in poco più di una frazione di secondo. Come sempre, guardiamo e giudichiamo le cose molto più velocemente della nostra capacità di pensarle. Gianni era lì da meno di cinque secondi, ma già aveva concluso di essere in un posto molto al di fuori dal comune.

Stava per fare tre passi verso un crocchio di persone che stava discutendo, alacremente, quando un ragazzo in skateboard gli tagliò d’improvviso la strada, da destra verso sinistra, facendogli fare un passo indietro traballante. Vide un ragazzo che sarebbe potuto tranquillamente uscire da uno skatepark di Los Angeles. Gli occhiali da sole Ray Ban, pur essendo assolutamente inutili in quell'ambiente chiuso, lo caratterizzavano in modo assolutamente meraviglioso.

Non era molto alto e i capelli, lunghi e biondi, erano raccolti dietro al capo con un nodo che ricordava molto quello dei samurai giapponesi. Un melting pot di stili niente male.

Los Angeles, così lo soprannominò tra sé e sé, si lasciava trasportare sinuosamente tra i tavoli e le persone, senza alcuno sforzo apparente. Lo vide avvicinarsi progressivamente al muro bianco in fondo allo stanzone, a sinistra. Lì le persone e i tavoli andavano notevolmente diradandosi, lasciando uno spazio insolitamente nudo, rispetto a quanto si vedeva sulla destra. Ormai Los Angeles aveva raggiunto la fine della stanza, proseguì ancora qualche metro fino a raggiungere una curiosa linea rossa che attraversava il pavimento dai finestroni fino alla parete, da parte a parte. Di lì scartò in modo secco, come se gli fosse stato impossibile il superarla e cominciò a tornare indietro. Gianni, vedendoselo passare davanti di nuovo si accorse che aveva gli airpods, che stava in realtà parlando al telefono e carpì che stesse discutendo dei termini economici per la firma di un contratto. Non riuscì a capire molto altro, ma sentì la parola “100 cappa”.

Cosa voleva dire 100 cappa?

Ma non poteva perdere altro tempo. Sentiva l’urgenza di quagliare e capire cosa dovesse fare e chi dovesse incontrare, ma rimase di nuovo attratto dalla linea rossa. Appena prima erano allineati, quasi ordinatamente, una fila di skateboard. Nessuno di essi la superava. Ripensò ai fumetti giapponesi, dove le scarpe vengono lasciate perfettamente allineate prima dell’ingresso in casa. Pochi metri più in là c’era un muro, questa volta materiale, perfettamente bianco, senza quadri o altro. Era il punto in cui l’edificio nuovo era stato saldato a quello vecchio. Quella che in passato era stata semplicemente una parete esterna era diventata una specie di muro divisorio fra l’ala nuova e l’ala vecchia. Le finestre ora erano diventate porte. Guardando dentro si vedeva in fondo una finestra lontana, troppo piccola per illuminare lo stretto corridoio in tutta la sua lunghezza. Sembrava quasi un tunnel. Vide una singola persona camminare, completamente scura in controluce rispetto alla finestra sullo sfondo. Non si riusciva nemmeno a capire se stesse allontanandosi o avvicinandosi, finché non la vide svoltare improvvisamente di lato, lasciando il corridoio vuoto.

Ma Gianni non poteva attardarsi. Stare li fermo lo metteva a disagio quasi quanto il fatto di non capire del tutto il contesto del luogo in cui era finito. Arrivato di fronte al gruppo si fece coraggio e chiese: “Scusate, cercavo il Dottor Zegna”. I componenti del gruppo si fermarono, lo guardarono.

Ma è più corretto dire che lo squadrarono.

Ma fu una frazione di secondo e subito dopo una delle ragazze gli pose amichevolmente la mano sulla spalla e gli chiese: “sei uno dei nuovi stagisti?” Gianni annuì senza riuscire a spiccicare niente di intelligente. “Grande!” rispose uno. “Ben arrivato!” disse un altro. “Su che area sei stato messo?” disse il terzo saltando semplicemente i convenevoli.

“Durante il colloquio il reclutatore mi ha parlato di Service Design” disse Gianni sperando di non dire una cazzata. “Ma allora siamo colleghi!” le disse la ragazza. “Mi presento, sono Francesca, loro invece sono…”. E qui Gianni sentì sgranare un numero troppo lungo di nomi, che dimenticò nell'esatto istante in cui venne detto l’ultimo. Si aggrappò disperatamente al nome Francesca, invece. A quanto pare ci avrebbe dovuto lavorare assieme e non voleva richiederglielo. In ogni caso Francesca gli propose di accompagnarlo fino “all'ufficio di Libero”, ovvero il dottor Zegna, che si rivelò essere semplicemente l’ultimo tavolo dell’open space, nel punto più lontano possibile dal muro bianco.

“Tu devi essere Gianni. Giusto?” gli disse quell'uomo alto, di mezza età, abbastanza in carne, con un pizzetto ben curato, un vestito normale e la cravatta più brutta che Gianni avesse mai visto. E fortuna che lui non ne sapeva nulla di cravatte. Ciononostante, anche se si vedeva che il sorriso era sincero, Gianni capì guardandolo negli occhi, in un millesimo di frazione di secondo, che dietro quella persona che dichiarava, esteticamente, di non prendersi troppo sul serio, c’era tanto spessore. Gli occhi tradiscono tutti, i buoni come i cattivi, ed era il metodo che lui stesso aveva messo in pratica per evitare di finire in grane, con brutte compagnie, mentre girava con i suoi amici per Quarto Oggiaro. Intanto alcuni curiosi, con fare noncurante, si erano avvicinati al tavolo con sguardo interrogativo, come con la faccia di chi sta per andarsene immediatamente, ma lo farà solo dopo aver capito di che cosa si tratta.

“Livia mi ha parlato molto di te e del colloquio” disse il capo a Gianni, il quale finalmente poté dare un nome alla donna che gli aveva fatto il colloquio. “Sai che ti ha fortemente voluto?”. E qui Gianni rimase per l’ennesima volta in silenzio, cercando di esprimere col volto la reazione più adatta a un’affermazione del genere. In fondo non voleva rispondere e sembrare troppo leccaculo o, ancora peggio, arrogante.

“Quindi lavorerai nel team del Service Design, corretto?”. Gianni annuì. “Okay” disse il capo mentre già riprendeva a dare un’occhiata fugace alle ultime mail che aveva ricevuto. “Allora, definiscimi che cos'è il Service Design”. Se fino a quel momento Gianni era stato praticamente muto, in quel momento trattenne anche il fiato, come per una gara di apnea. Nel frattempo il suo cervello viaggiò a mille chilometri all'ora. Aveva letto qualcosa su internet, ma niente di serio. E dentro di sé si disse: “Che idiota! Non so nemmeno dire che cosa sto venendo a fare!”.

Ma dopo nemmeno un secondo fu lo stesso Libero a trarlo d’impaccio: “dai che sto scherzando!”

Gianni sfoggiò il sorriso più sollevato e impacciato che avesse mai potuto sfoderare, senza rendersi conto di essere stato messo alla prova per la prima volta. “Ma almeno ti hanno spiegato un po’ come funziona qui?”, proseguì Libero con fare divertito. E qui Francesca intervenne dicendo che era appena arrivato e che doveva ancora fare l’induction.

“Cos'è un’induction?” Si chiese Gianni, senza ovviamente rivolgerla a nessuno dei presenti, per non apparire stupido. Era già la terza parola che non capiva e cominciava a sentire le gote delle guance scaldarsi. Se le usavano senza sentire la necessità di spiegarle dovevano essere per forza scontate.

Libero, con fare secco, ma non cattivo, alzò un’ultima volta lo sguardo e disse: “portate il nostro Tecnico Superiore dalle risorse umane”. “E dategli un computer” si sentì urlare mentre Gianni e Francesca si stavano allontanando. “Seguimi pure” gli disse Francesca sorridendo. “Le risorse umane sono nel Vecchio”.

Cominciarono a percorrere tutto il lungo open space all'inverso. “Ma perché ti ha chiamato Tecnico superiore?”, chiese con finto fare noncurante Francesca. “Beh, perché sono un tecnico superiore… mi sono specializzato in “Metodi e tecnologie per lo sviluppo di sistemi software” presso un ITS”. “E che cos'è?”. “Una specie di università professionale per ambiti tecnici. Ma dura solo due anni”. Disse Gianni mettendo le mani avanti. Ma capì di non essere stato convincente. Francesca lo guardava quasi fosse un alieno, finché lei non concluse: “mi informerò”.

Erano arrivati alla fatidica linea rossa. Gianni l’attraversò, semplicemente, mentre si rese conto che Francesca si era fermata un attimo prima. “La porta di Livia è in fondo, a fianco a quella finestra. Chiedile pure tutte le cose che vuoi. È una schietta e vuole sempre incontrare i neo-assunti. Ti saprà indirizzare poi lei verso gli altri uffici per le pratiche”.

Gianni la salutò, si girò verso lo stretto corridoio e lo imboccò, quasi timoroso. Passò d’improvviso da un ambiente rumoroso, caotico e luminoso a uno più scuro, ma anche più ordinato e silenzioso. Dalle porte vedeva tanti uomini e donne lavorare, seduti ai tavoli. Tutti gli uomini erano in giacca e cravatta. Finalmente il vestito che si era messo era in linea con l’ambiente che lo circondava, pensò.

Illuso.

Dopo una lunga camminata arrivò all'ultima porta, giusto a fianco alla finestra. Qui, finalmente, era tornata la luce. Fuori si intravedeva la stradina col pavè, da cui era arrivato. Lesse sulla targhetta il nome “Livia Esposito: Responsabile Risorse Umane — Italia”.

“Sono stato intervistato dalla responsabile Italia delle risorse umane??” mentre bussava alla porta con il cuore in palpitazione. “Avanti!” Sentì rispondere dall'altra parte della porta. Socchiuse prima con circospezione la porta e la vide. Era proprio lei. La donna che lo aveva intervistato e, presumibilmente, assunto. Finalmente Gianni si risolse a spalancare la porta, fece un passo in avanti e scoprì che la donna non era sola nella stanza. Dall'altra parte della scrivania stava una ragazza. Ma non era una ragazza qualunque. Era la ragazza col vestito rosso che gli aveva tagliato la strada all'inizio della mattinata nella hall. La stronza.

Gianni imprecò fra sé e sé in silenzio, sorrise alle presenti, chiuse la porta alle proprie spalle e… si presentò.

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Alessandro Giovanazzi
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