La luce in fondo alla Strada

LITTLE WORLD — Episodio 1

Alessandro Giovanazzi
Learning Diaries
8 min readApr 30, 2019

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Due stagisti. L’esperienza del primo lavoro. I desideri, le paure, l’inadeguatezza e la necessità di diventare grandi, in fretta. Il lavoro in Italia può essere raccontato in tanti modi. Qui lo si vuole fare nel modo meno scientifico possibile, attraverso gli occhi di Lucia e di Gianni.

Gianni si fermò al centro dell’incrocio. Di lì si dipartivano diverse strade. Ognuna portava da qualche parte. Ma dove? Non sapeva proprio dove dirigersi. Si era definitivamente perso. Non era abituato a camminare per le vie secondarie del centro di Milano. E fortuna che ci era nato.

Il centro di Milano è strano. Diresti che è semplice da girare e vedere. Il Duomo, Il castello sforzesco, la Scala, il quartiere di Brera. Ma non è tutto qui, se esci dalle vie principali comincia un complesso reticolo di viuzze, piccole, contorte e misteriose. Queste vie, piene di palazzi nobiliari antichi, sono spesso intercalate da edifici moderni, perlopiù grigi, spesso brutti, costruiti seguendo una moda degli anni ’60 che oggi sarebbe semplicemente ingiustificabile.

Meno male che era uno dei pochi momenti freschi della giornata, perché era da un po’ che camminava. Ma, soprattutto, c’era una luce bellissima, che trapelava tra quella leggera nebbiolina mattutina fra le case che ogni milanese nativo, o d’adozione, conosce perfettamente. Camminare sul marciapiede con quelle scarpe produceva un incessante ticchettio dei tacchi, che Gianni non era abituato a sentire e che cercava, per quanto possibile, di limitare spostando il baricentro in avanti.

Le scarpe erano di una marca scadente, così come il vestito, d’altronde. Ma non è che si potesse fare diversamente. Di vestiti da ufficio, di livello, non ne aveva. Si chiedeva peraltro come potesse una persona guadagnare abbastanza soldi da potersene comprare molti. Figuriamoci poi quelli di marca. Da quando gli avevano comunicato che l’avrebbero preso per lo stage aveva provato, di nascosto, a guardare le vetrine di alcune catene che riteneva essere di livello, in centro. Ovviamente aveva guardato solo con fare distratto, velocemente, sperando che il commesso da dentro non lo notasse. Era chiaro che con la sua felpa, i suoi jeans e quelle scarpe da ginnastica fosse totalmente fuori posto. Entrare nel negozio probabilmente avrebbe messo più a disagio il commesso, che lui stesso.

Chiaramente sarebbe stato servito, ma ci aveva già fatto il callo a quell’imbarazzo mischiato a fastidio e fretta dei commessi nei negozi un po’ più altolocati: ogni vestito andava bene. Anche il più brutto della collezione. Non si sa perché gli venivano sempre suggeriti quelli un po’ casual, “così da poterli usare anche in altre occasioni, specie durante le serate”. Come se il doverli utilizzare per eventi formali non centrasse davvero con lui.

Eppure, l’abito faceva il monaco. Eccome. E Gianni lo sapeva fin troppo bene. E vedere quei completi così perfetti dietro la vetrina dava chiaramente quel tono in più, quella serietà, quella validità che solo la perfezione della forma può dare. Potevi essere il più bastardo dei capi, il più maniaco fra i responsabili, il più carrierista dei giovani rampanti. Ma un vestito a tono dava quel quid in più senza che l’esperienza avesse comprovato un bel nulla. Ma, come si sa, la gente se le fa bastare eccome le apparenze.

Proprio per questo si era fatto spiegare dalla mamma come si stirano le camicie già due giorni prima. Così la sera prima dell’inizio, mentre lei gli mandava il solito messaggio per chiedergli come stava e dirgli di scaldare nel microonde il solito piatto preparato la mattina prima di uscire, giusto prima di attaccare il secondo lavoro, lui si era trovato a stirare la sua prima camicia. La televisione e la playstation, comprate usate dopo mesi di lavoretti, avrebbero aspettato. Come diavolo fanno le mamme a stirare così bene il colletto e in così poco tempo? Questa e altre domande gli frullavano nella testa mentre creava inevitabilmente delle pieghe che si sarebbe portato addosso per tutta la giornata successiva. Chissà se qualcuno le avrebbe notate.

Ma soprattutto: chissà com’era il capo e chissà come sarebbero stati i nuovi colleghi. Anche se, in realtà, la cosa che lo preoccupava di più era la questione del pranzo. Sperava davvero di non dover mangiare fuori tutti i giorni. Non se lo sarebbe potuto permettere. Magari avrebbe trovato qualcuno che si portava il cibo da casa. Forse no, ma magari sì! Di sicuro non voleva fare la figura dell’isolato. Quindi aveva messo da parte un centone per i primi pasti fuori. All’inizio avrebbe seguito la massa. Poi, finiti soldi, avrebbe fiutato dove tirava il vento e si sarebbe regolato di conseguenza.

Inoltre, non riusciva a togliersi di dosso il dubbio più importante. Non sapeva bene perché lo avessero preso. Di sicuro gli mancavano i numeri giusti. Di tutti i colloqui che aveva fatto lo avevano preso solo per posizioni ben più umili. Come biasimarli, d’altronde. Il suo CV, oltre che un lenzuolo bianco, su cui chissà se la vita gli avrebbe dato la possibilità di scrivere qualcosa di interessante, era anche scritto piuttosto male. D’altronde a scuola gli avevano veramente insegnato di tutto, ma non a preparare un CV. Fortuna che era riuscito a trovare un amico che gli aveva passato il suo da copiare, perché la prima versione sarebbe probabilmente finita incorniciata nell’ufficio delle risorse umane, come esempio di CV da non spedire.

Il colloquio era partito come quasi tutti gli altri. Male. Competenze zero. Esperienza zero. E la cosa, allora come nelle occasioni precedenti, venne fatta presente. Questa era la cosa che aveva fatto incazzare maggiormente i suoi amici, ogni volta che l’aveva raccontata. “Pure Beethoven a un certo punto della sua vita non avrà saputo nemmeno cosa fossero le note, no??” gli aveva detto Greg, al pub, di fronte a una birra.

Dei tre reclutatori, due scrissero distrattamente su plichi di fogli senza quasi mai alzare lo sguardo. Solo una delle tre lo guardò e gli pose domande non standard. Al “come ti definiresti?” Gianni decise di rispondere senza pensare alla cosa giusta da dire. Almeno per una volta. Rispose con un secco: “sono curioso”.

Non sapeva perché, ma i due scribacchini a quella risposta scossero impercettibilmente la testa senza sollevarla, in modo forse inconscio. Ma la donna, di cui non ricordava nemmeno il nome, aveva avuto un rapido guizzo negli occhi, nascosto velocemente dagli anni di esperienza. Da quel momento lo aveva riempito di domande strane, sulla sua vita, sulla sua storia, sulle sue passioni. Per una volta rispose sinceramente a tutto, cercando di sottolineare il suo innato desiderio di fare cose grandi e di non accontentarsi. Lo fece un po’ così, per fallire in un modo diverso dal solito. Eppure quella mattina non era di fronte al pc, da solo nella cucina di casa, a cercare lavoro.

Ritrovata la strada e svoltato l’angolo, se lo ritrovò di fronte. Incredibile averci messo così tanto a trovarlo. Era giusto due-tre viuzze in là rispetto a piazza del Duomo e al suo continuo via vai, ma sembrava tutta un’altra città, quasi ovattata, in quella stretta viuzza coperta dal pavè solcata solo dai passanti. Quel palazzo, rispetto alle piccole corti nobiliari del ‘600 che costellano il centro segreto di Milano, faceva davvero impressione per imponenza e forse anche per arroganza. Faceva chiaramente parte del club dei palazzi brutti, ma era più grande ed era stato completamente riammodernato. Era ricoperto di marmo bianco, a cui erano state aggiunte grandi vetrate e luci a non finire, accese anche di giorno. Già solo l’estetica faceva capire che lì dentro accadeva qualcosa di grosso, di innovativo, di importante. Incuteva un bel tot di timore e rispetto. E lui ci doveva entrare dentro!

Si sistemò per la decima volta la cravatta ed entrò nervosamente in una portineria che era tutto un andirivieni di persone. Visto da fuori, con quegli occhi, ansiosi, probabilmente si sarebbe potuto scambiare per un passante che si era perso, in cerca di informazioni. Solo il vestito tradiva, parzialmente, la vera ragione del suo essere lì.

Nella hall era tutto nuovo. Nulla di lussuoso, ma nemmeno niente di sobrio. Le donne alla reception erano insolitamente giovani e belle, mentre gli uomini avrebbero potuto tranquillamente andare a una sfilata di moda, magari non di prima categoria, ma di seconda certamente sì. Si avvicinò al bancone per chiedere come raggiungere l’area per l’innovazione digitale. Il cuore gli stava già battendo a mille e l’unico obiettivo era quello di non balbettare.

La receptionist stava già cominciando a sorridergli quando, d’improvviso, una ragazza, non eccezionalmente bella, ma truccata alla perfezione, gli tagliò sfrontatamente la strada:

“Scusa, mi dici come posso raggiungere l’area Relazioni Internazionali?”.

La receptionist, aspettò un mezzo secondo buono per vedere possibili reazioni da parte di Gianni. Appurato di no, le cominciò semplicemente a rispondere senza tenere conto della priorità. In meno di un secondo aveva fatto il calcolo costi-benefici del rispondere alla ragazza o tenere conto del diritto del primo arrivato. In quel secondo Gianni ne era già uscito, per la prima volta, perdente.

“Che stronza” pensò fra sé e sé Gianni, fremendo, ma lasciando che la cosa accadesse senza alzare un solo dito. “Meglio non inimicarsi qualcuno con cui potrei avere poi a che fare”, pensò. “Ma spero davvero di non averci mai a che fare”, concluse.

Finito il dialogo e capito dove dirigersi, la stronza ringraziò in modo fastidiosamente gentile la receptionist e si diresse verso il suo obiettivo. La vide allontanarsi con una giacchetta rossa fuoco, che in realtà strideva con il blu prevalente vestito dalla maggioranza delle donne nell’atrio. Solo dopo averla vista svoltare l’angolo Gianni fece mezzo passo in avanti e chiese per la sua area. “Ascensore a destra, primo piano, lavorerai nel nuovo open space”, gli venne risposto in modo secco.

“Chissà se sopravviverò mai a questa giornata”, si chiese Gianni mentre le porte dell’ascensore si chiudevano. Proprio in quel momento gli arrivarono sul cellulare i messaggi dei suoi amici e di sua mamma, che lesse di nascosto: “Fatti valere”. Questa la frase più ripetuta. Un punto di luce in una giornata partita col piede sbagliato. Ma non fece in tempo a riflettere un secondo di più. Le porte dell’ascensore si aprirono. Il grande spazio aperto davanti a lui brulicava di persone.

“Forza” si disse fra sé e sé, facendo il suo primo passo e cercando di capire dove dirigersi.

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Alessandro Giovanazzi
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