“Un modello di relazione che gli proponi, semplicemente, vivendo”

Dialogo sulla comunicazione, gli strumenti digitali, gli studenti e il rapporto col mondo del lavoro nella scuola che cambia

Alessandro Giovanazzi
Learning Diaries
8 min readJun 20, 2018

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L’ufficio del Vice-preside del Liceo Lussana di Bergamo, durante una normale mattinata scolastica, è come un cuore pulsante. È oggetto di un via vai infinito di docenti, studenti e bidelli (in particolare Rita, con i suoi bei plichi di libretti da firmare, che ricorderò sempre per i sorrisi regalati ogni giorno durante i miei sei mesi da supplente).

Non posso dimenticare le ore che mi ha dedicato, in quell’ufficio, nel cercare di affrontare le fatiche da insegnante di primo pelo, così come l’appoggio incondizionato e la fiducia verso i progetti che gli presentavo. Ma soprattutto ricordo una persona che vuole davvero bene agli studenti, anche se non entra più in classe da ormai diverso tempo. Per me è stato semplicemente un insegnante.

Prima domanda, un po’ personale. Chi è Stefano Dominoni?

La prima cosa che mi viene in mente: sono quello che vedi, quello che vedono a casa i miei figli, quello che può vedere chiunque mi incontri, quello che vedono gli studenti.

Anche gli studenti?

In particolare gli studenti. Cerco di essere sempre franco, diretto e rispettoso con loro. Sia con quelli capaci, che con quelli meno capaci. Peraltro, negli anni mi sono reso conto che anche chi è bravo, chi è capace, chi sta proseguendo correttamente il suo percorso ha bisogno di essere ascoltato, nonostante se la possa cavare tutto sommato bene anche da solo. Questo perché anche lui ha bisogno di essere riconosciuto e di esistere agli occhi di chi lo sta formando.

Dopodiché, i maggiori sforzi vanno nella direzione di quelli che sono in crisi, per vari motivi, cercando sempre di capire che le difficoltà scolastiche sono spesso connesse alle difficoltà che affrontano nella vita. Ovvero parte tutto da un problema di “riconoscimento”.

Puoi spiegarmi meglio quest’ultimo passaggio?

Generalizzare è sempre difficile. Però mi pare di poter verificare, nella mia esperienza, che i casi di difficoltà siano legati a doppio filo a una bassa autostima. Bassa Autostima che toglie l’energia vitale allo studio, all’impegno, alla forza e al coraggio di dare tutto per qualcosa.

Uno studente che è consapevole di potercela fare, almeno tenterà. Ma se uno, già in partenza, dice: “io non ce la faccio, non ce la farò mai, è impossibile!”. Ecco, questo studente non ci proverà nemmeno a cimentarsi. Ecco cosa succede quando manca questa consapevolezza, il “riconoscimento” di avere un valore e di potercela fare.

Ma da dove viene Stefano Dominoni?

Pensa. Alla domanda “da dove vieni” non ho pensato alla geografia, ma piuttosto alla storia. La mia storia. Sono nato e cresciuto a Bergamo. Figlio di un padre proveniente da Caravaggio e di una madre di Bergamo. Per rispondere da dove vengo devo ripensare ai miei genitori, a ciò che mi hanno raccontato loro, i loro vissuti derivanti dalla Seconda guerra mondiale, il loro modo di condurre la famiglia, il loro modo di approcciarsi con noi (fratelli), nel bene e nel male. Loro sono stati un modello per me, affinché potessi a mia volta farmene uno mio. Sono loro il mio “da dove vengo”.

Come sta cambiando il contesto in cui crescono i nostri studenti, rispetto alla tua esperienza?

La cosa che mi viene da dire, innanzitutto, è la comunicazione. Nella mia esperienza di studente il luogo primario della socializzazione era la classe. Invece - oggi - la presenza dei nuovi canali digitali ha creato nuovi spazi di socializzazione. Poi non voglio descrivere un passato paradisiaco. Anche io, quando avevo la loro età, vedevo e sapevo di luoghi fuori dal controllo dei genitori e degli insegnanti, dove potevamo finalmente essere “liberi”. Però questi nuovi spazi digitali a volte mi sembrano davvero fuori controllo. E la mia impressione è che il livello della comunicazione in questi ambienti abbia raggiunto dei livelli paurosamente bassi. Il problema è che questo abuso continuo del linguaggio li porta a non rendersi più conto di quello che dicono, ed è qui che gli studenti più sensibili cominciano a venire “feriti” dalla massa.

Come l’utilizzo dei nuovi strumenti tecnologici influisce sulla didattica a scuola?

Non saprei darti una risposta generalizzata. Però una cosa te la possa dire: le classi che usano i tablet in modo sistematico, rispetto a quelle più “tradizionali”, hanno risultati pressoché identici. Eppure ci sono altri aspetti che non si possono valutare, rispetto alle cosiddette capacità critiche, da tenere da conto. Quindi, da un punto di vista meramente empirico, e non scientifico, mi sembra di poterti dire che le classi tablet di fronte a un problema si muovono, si organizzano, brigano, si dividono immediatamente in gruppi, partono con la riflessione. Al contrario le classi senza tablet, quando vengono poste di fronte a un problema, fanno molta più fatica e rischiano di rimanere mute e immobili. In altre parole sembra che lo strumento tablet abitui gli studenti ad affrontare in modo problematico lo studio.

Poi bisogna dire che non esiste più lo studente che ascolta semplicemente e ripete. Sicuramente anche la didattica senza strumenti tecnologici si presenta ormai in modo molto più dialogato e problematico. Però le nuove tecnologie sembrano fornire un supporto maggiore in quella direzione, per cui l’insegnante non ti fornisce più nemmeno il materiale, perché te lo devi trovare tu!

Spesso, emergono da parte di Confindustria richiami al sistema Scuola, affinché prepari gli studenti a sviluppare le giuste competenze per il nuovo mercato del lavoro. La scuola è sufficientemente collegata con il mondo del lavoro?

La mia opinione è che a livello di gestione centrale, la scuola non venga organizzata in modo tale da creare un collegamento col mondo del lavoro. Lo Stato spende un bel po’ di soldi per formare uno studente dalle elementari fino all’ultimo anno dell’università, in qualsiasi campo egli si voglia specializzare. Ma arrivati alla fine del percorso, passando anche dall’alternanza scuola-lavoro, che cosa c’è di solito?

Vuoto. Un grande vuoto.

Dal mio punto di vista c’è un difetto di sistema nel progetto formativo. Una volta non era previsto (penso ai licei e poi alle materie umanistiche) un raccordo tra studio e inizio del percorso lavorativo. Non ce n’era semplicemente bisogno. Ma adesso invece c’è! Dobbiamo imparare a organizzarci. Altrimenti, mi viene da dire brutalmente, questi ragazzi rischiamo semplicemente di abbandonarli fuori dalla porta della scuola.

I docenti (al di là di vulgate avulse dalla realtà) hanno dei carichi di lavoro spesso molto alti, insieme a classi molto numerose. Non si corre il rischio che vada a perdersi il rapporto personale con gli studenti?

Indicativamente il rapporto di un docente con i propri studenti viaggia mediamente su un rapporto di 1 su 150–200. Quindi, anche il solo pensare di poter approfondire i rapporti con ciascuno di essi è semplicemente impossibile. Ma in fondo non credo che la questione fondamentale verta su quanto tempo riesci a dedicargli. Non c’è bisogno di un rapporto - per così dire - intimo con lo studente. Piuttosto c’è bisogno di fornire un modello. Un modello di relazione che gli proponi, semplicemente, vivendo di fronte a lui. E a quel punto non c’è bisogno di fare mille cose, così come non c’è bisogno di dire: “ti voglio bene”.

Un altro elemento su cui si discute molto, fra docenti, è l’abbassamento della qualità nell’apprendimento degli studenti di oggi.

Ma a loro viene chiesto molto più di quanto venisse chiesto un tempo noi! E devo dire che quando ero al loro posto studiavo un sacco! Adesso, rispetto alle materie con cui ho iniziato a insegnare, ovvero la matematica e la fisica, c’è una ricerca della complessità nell’approfondimento che a volte mi sembra addirittura eccessiva.

Poi se questo aumento della ricerca della complessità viene esportato negli istituti tecnici, provocandone una sorta di liceizzazione, la cosa ne viene fuori ancora più acuita. Perché questi studenti appaiono sempre più incapaci di raggiungere i livelli prefissati (con i tassi di abbandono scolastico che ne conseguono), quando invece una volta entrati nelle aziende magari sono semplicemente bravissimi!

Vorrei chiudere con la questione dell’errore, che mi è molto cara. Io credo che sia uno strumento educativo formidabile. Come viene vissuto all’interno della scuola?

Io sono d’accordo sul fatto che uno debba avere il diritto di poter sbagliare. Poi se sei un ingegnere e devi costruire un ponte è una cosa. Ma se non puoi sbagliare a scuola, che ti serve proprio per poter arrivare fino a lì! Quando potrai?

Poi l’errore deve essere inserito in un contesto in cui sono chiari gli obiettivi da raggiungere. Uno deve essere aiutato a vedere dove deve arrivare, per capire dove sta sbagliando. Se invece l’errore non viene supportato, diventa semplicemente un muro. Un muro che peraltro può essere usato non tanto per formare, ma piuttosto come mero strumento di selezione e valutazione.

Comunque, se ci si ragiona sopra, selezionare una persona sulla base di quanti errori fa (o non fa) è una cosa violentissima.

Pensa è come vengono selezionati i dirigenti scolastici e i docenti nelle scuole pubbliche italiane. Per mantenere “l’imparzialità” non vengono selezionate delle persone, ma dei compiti, dei test a crocette, dei manufatti.. E in questi casi l’errore non ha un’accezione positiva, perché in fondo è ciò che non ti fa passare il concorso. Ma secondo te ci può davvero essere un nesso causale tra la capacità di rispondere a un test a crocette e la capacità di dirigere una scuola? Oppure di insegnare in una classe? Quello che vedo io è che finché non entrano a scuola, potresti trovarti di fronte a bravissimi insegnanti così come l’esatto opposto. Abbiamo voluto, con i test a crocette, mantenere una perfetta imparzialità, creando un meccanismo distorto. Perché questa “imparzialità” si basa sulla debolezza dell’uomo. Sulla speranza che questo uomo sbagli.

Il concetto, invece, dovrebbe essere diverso. Bisognerebbe partire da come è fatta una scuola e capire quale possa essere la persona giusta per andare a dirigere quella scuola lì, o per andarci a insegnare. Il problema è davvero conoscere la normativa a menadito e saper rispondere a un test a crocette? Oppure i dirigenti dovrebbero essere selezionati sulla base di altri criteri, quali ad esempio: capacità di relazione con gli studenti, con i docenti, insieme a doti organizzative e una capacità di visione?

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Scritto, con cura, da Alessandro Giovanazzi su Euristika!

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Alessandro Giovanazzi
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