Il corpo digitale delle parole

Stefano Pace
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6 min readNov 9, 2017

La comprensione della nostra era digitale passa normalmente attraverso due sentieri. Il primo è fatto di modelli ben disegnati, teorie ben fondate, l’ultima best practice di successo. Il secondo sentiero enfatizza il lato distopico del digitale, ancorandosi alla breaking news che fa dei social network una fonte del male moderno. Percorrendo l’una o l’altra strada, il risultato cambia poco: si rischia di uscire dal digitale per entrare, rispettivamente, nel sempiterno dell’astratto (la teoria non muore mai) o nell’eccezionale del concreto (il reale è un generatore di eccezioni).

C’è una via diversa per capire il digitale: la via narrativa. Chiara Bottini (Quello che non vedi) in “La prossima parola che dirai” (Centauria) ha scelto questa terza via, la più ardua, ma anche la più profonda. “La prossima parola che dirai” ha le fattezze di una storia digitale, ma non è una storia sul digitale. È un libro analogico, come analogica è la passione, la carnalità, i treni e le città, le stanze d’albergo e le tastiere. Eppure contiene alcune delle essenze del digitale.

Il libro percorre due intensi tratti di vita di Livia e Giulia Maria e del rispettivo amour fou (espressione che prendo da una recensione letta su Amazon — a proposito di scrittura digitale — che rende bene la vena sottesa alla storia) per i loro amanti. Il libro propone (potremmo dire che raccoglie, visto che il testo ha la forma di una cronaca live che si svolge sotto gli occhi del lettore) le mail scambiate, i tweet interpolati, la comunicazione digitale che intercorre fra le due donne. Una comunicazione che non è commento a corredo delle due storie, bensì parte essenziale delle storie stesse. Nel libro, la passione è analogica e in airplane mode, ma si nutre o si avvelena di parole digitali. Due storie parallele che si incrociano online nell’immaginazione, nel contrappunto, nella disperazione, nel conforto, nella critica, nella liberazione che sanno dare le parole che Livia e Giulia Maria scrivono reciprocamente.

Digitale o reale? Umano e verbale

L’opposizione fra digitale e reale è ormai risolta. Da Nathan Jurgenson e altri autori in poi, porsi la domanda se la realtà sia diversa dal virtuale è superfluo. Il digital dualism che divide i due presunti mondi è superato a favore di una augmented reality integrata. Ciò non significa indossare degli occhialoni per vedere i dinosauri in 3D dietro l’angolo, ma sapere che ciascuno di noi vive già e comunque in un mondo digitale, anche senza un account Facebook o Twitter.

Applicando la sintesi ormai raggiunta fra reale e virtuale, “La prossima parola che dirai” gioca con i due lati per proporne il terzo, di natura narrativa. Il lato tangibile e corporeo è intensamente presente nel libro (è il reale). È fatto di “panna e parole”, di “radici sotto l’asfalto”. Un reale corporeo e completo: “ero un’estensione del suo corpo e della sua mente, del suo stare sul globo terrestre, altro che amore a distanza” scrive Giulia Maria. Questo reale è però raccontato sullo schermo degli smartphone e dei computer sui quali Livia e Giulia Maria scrivono e scambiano i propri pensieri (è il digitale). Schermo che si trasforma nella pagina del libro attraverso la quale il lettore entra nella storia (è la sintesi fra reale e digitale). Reale o digitale? Reale come gli incontri e gli scontri fra le due protagoniste e i loro compagni, oppure digitale come la descrizione, necessariamente mediata dallo schermo-pagina, di tali incontri e scontri? Né reale, né virtuale, appunto.

“Esisteva nel suo involucro mortale, non solo nelle infinite sequenze sintattiche”

Forse le autentiche protagoniste del libro non sono i corpi e le emozioni delle due protagoniste, ma le parole che fuoriescono da quei corpi e da quelle emozioni. Una proprietà del digitale è infatti quella di catturare e fissare nella solida evanescenza di un tweet e nella temporanea stabilità di una mail il verbale che emana, come un vapore, dalle nostre vite. Il libro di Chiara Bottini si addentra in questa operazione di sintesi digitale.

“quelle parole, per me, erano la pelle”

Dalla voce narrante alla fictional curatorship

Lou Reed — Perfect Day (“ You just keep me hanging on”)

Ogni storia ha, necessariamente, il suo punto di vista, la sua voce narrante. Terza persona o io narrante in prima persona? Narratore onnisciente? Il caso di “La prossima parola che dirai” è un’ulteriore sintesi tipica del pensiero (e della scrittura) digitale. Più che di voce narrante, si dovrebbe parlare di fictional curatorship. Chiara Bottini scrive il libro, ne è l’autrice, ma è come se — narrativamente — si tirasse fuori dalla pagina-schermo: la struttura che sceglie è quella di una cronachista e narratrice che riporta fedelmente i testi delle due protagoniste. L’io narrante non è di chi racconta ponendosi nella prospettiva delle protagoniste; è la voce delle protagoniste che scrivono direttamente sui loro schermi (e sulla pagina del libro). Il ruolo dell’autore nella scrittura digitale assume contorni diversi rispetto al passato.

Questa voce narrante, impostata come curatorship, è pienamente digitale. Se, da lettore, non si cogliesse questo aspetto, le vicende delle due protagoniste assumerebbero una continuità che potrebbe suonare eccessiva nella loro intensità. Invece, proprio perché le parole riportate sulla pagina sono quelle scritte e prescelte dall’autrice/dalle due protagoniste (i due orizzonti si fondono nella scrittura digitale), la continuità diventa realistica. Le timeline Facebook o le serie di tweet che leggiamo ogni giorno raccolgono già una pressante continuità da curatorship da parte dei loro autori. I momenti felici e solamente quelli felici su Instagram; i contenuti da condivisione e solamente quelli da condivisione su Facebook. Il ritmo della scrittura digitale è una continuità fatta di campionamenti, di curatorship autobiografiche. Ciò rende i testi digitali continuamente nuovi e in grado di catturare l’attenzione dei lettori (“You just keep me hanging on”, Lou Reed). Il fatto che ci sia un cherry picking dei momenti più significativi (poetici, eroici, tristi, euforici, artistici…) per il curatore di un account digitale non crea un ritmo blando, anzi il contenuto è offerto in modo costante, sono le frequenze a cambiare. Analogamente, il ritmo in “La prossima parola che dirai” ha la tensione di parole che intessono episodi e pensieri puntuali in un flusso unico.

Scrittura e lettura collettiva

Pink Floyd — Comfortably Numb (“ Just nod if you can hear me”)

Uno dei momenti che rivelano il tessuto digitale della scrittura e della lettura di “La prossima parola che dirai” è nella vicenda di un ammiratore e confidente di Giulia Maria. Si avvicina a lei a causa di un parziale fraintendimento: “Non aveva capito che ci fosse un altro. Pensava che certi tweet fossero indirizzati a lui”. Un aspirante cavaliere attratto da parole che erano indirizzate ad altri o, semplicemente, alle nuvole. Il passaggio, letto con la lente della narrativa pre-digitale, sarebbe un semplice equivoco da lettera mal indirizzata. Con la prospettiva di una scrittura e lettura digitale, invece, si nota che riferire a sé parole lette lì fuori è una delle operazioni che il consumatore digitale compie ogni giorno. Una volontà emotiva di essere al centro, visto che tutto sembra passare attraverso il proprio piccolo display (“Just nod if you can hear me”, Pink Floyd). Aforismi su Twitter che sembrano commentare in modo esatto un proprio momento (premiati col retweet), post motivazionali su Facebook che giungono nel momento giusto (celebrati col Like), immagini su Instagram che ispirano personalmente (un bel cuoricino): nel flusso dei contenuti online, ci soffermiamo su ciò che risuona e lo facciamo nostro. A volte è talmente nostro che lo trattiamo come una parte di noi prodotta da altri.

“Si è compattato tutto in un enorme blocco”

Il digital self forse non è un’estensione del self, è piuttosto un impastarsi in altri sé, fino a formare un corpo unico. Nasce una declinazione soggettiva operata da un lato dello schermo su contenuti altrettanto soggettivi generati dall’altra parte dello schermo, il tutto in un ambiente collettivo.

“Chi ha detto cosa a chi? ”

Vista con l’ottica dei regolati palinsesti dei media classici, i social media sono un ambiente caotico e rumoroso. Invece, i social ospitano un’altra delle proprietà della scrittura e della lettura digitale: tutto è scritto da tutti per tutti e ciascuno ascolta la nota che risuona nella sua testa. E risponde a quella nota. Scrivere una storia in e con questa rumoreggiante e florida sonorità digitale è scrivere digitale.

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