Un albero cresce a Brooklyn

Un romanzo di formazione nella giungla metropolitana

Valentina D.
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3 min readFeb 1, 2016

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Lo ammetto qui, senza vergogna: a volte, quando l’ispirazione manca e sono a corto di idee, mi faccio consigliare il prossimo libro da leggere dalla lista di Rory Gilmore. È così che mi sono imbattuta nell’ormai classico americano Un albero cresce a Brooklyn (pubblicato in Italia da Neri Pozza), romanzo di formazione quasi autobiografico che segue le vicende di una piccola Francie Nolan attraverso le strade di Brooklyn a cavallo dei primi due decenni del ‘900.

Frances cresce curiosa, con un’eccezionale avidità di comprensione della vita e con una fortissima passione per la lettura, e da bambina che porta ogni settimana gli stracci e i fogli di alluminio raccolti per strada per guadagnare qualche spicciolo si trasforma in adolescente inquieta, costretta a lavorare in un ufficio di Manhattan e a dover rinunciare al suo sogno: le scuole superiori — anche se questo non le impedirà con un sotterfugio di frequentare comunque i corsi estivi dell’università. Incontriamo per la prima volta la piccola Francie appollaiata sulla scala anti-incendio del palazzo in cui vive, un libro in una mano e un biscotto nell’altra, mentre si perde ad osservare i vicini attraverso le finestre aperte, o i passanti e i cavalli. Davanti alla sua finestra si stendono i rami fronduti di un albero che affonda le sue radici nel cemento del cortile. Un albero che cresce rigoglioso nonostante l’ambiente poco favorevole, dove nessun’altra pianta riesce a sopravvivere. Un albero tipico dei quartieri poveri, che sembra mettere radici proprio negli angoli in cui la miseria e la povertà sono più vive che mai, e che diventaa un simbolo o un segno di riconoscimento nel quartiere di quali sono i cortili in cui vivono le famiglie di immigrati più povere e derelitte del circondario.

Ecco, questo tipo di immagine è ricorrente per tutto il libro. Il tono del racconto spesso diventa sentimentale, ma non fastidioso e mai autocompiaciuto. Spesso è commovente, ma ancora più spesso è divertente: le descrizioni delle formidabili zie, tre sorelle di origine austriaca e completamente diverse l’una dall’altra se non per lo spirito vitale e combattivo che le accomuna e che hanno sicuramente ereditato da nonna Rommely. Tutte le figure femminili del libro in effetti hanno una forze di carattere sorprendente, mentre gli uomini sono spesso rappresentati come necessari, ma deboli. E quindi il padre amatissimo e il fratello che sembra averne ereditato tutto il fascino, la sequenza ininterrotta dei “Johnny” di zia Sissi, i commercianti ambigui: delle variabili tanto desiderate e indispensabili quanto inaffidabili, se non dei veri e propri pericoli.

Invece sono i rapporti con le altre donne a segnare la crescita e l’evoluzione di Francie, nonostante il suo intento di non voler mai diventare amica di nessuna donna, visto che di queste non ci si può fidare. E specialmente il rapporto con la madre è commovente, anche per come viene raccontato con delicatezza, in piccoli episodi che però rendono chiara tutta la sua complessità e la sua evoluzione nel passare del tempo. Poi vabbe’, io amo i cavalli e secondo me anche Betty Smith deve averli amati molto, perché alcuni dei passaggi più vivi sono proprio dedicati a loro, e in tutti i momenti fondamentali del libro c’è un cavallo, anche solo di passaggio nello sfondo. Probabilmente non metterei questo libro tra gli “essenziali”, ma è sicuramente interessante sentire il racconto di quello che era New York prima e come vivevano per le sue strade la massa di immigrati di prima e seconda generazione che l’hanno resa quella New York di cui solitamente leggiamo e che troviamo consacrata in altri romanzi e altri film.

Questo post è già apparso su www.malapuella.it l’1 febbraio 2016.

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Valentina D.
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