Il migliore degli iceberg. Su “La ferocia” di Nicola Lagioia

Libreria Francavillese
La chianca
Published in
5 min readMay 15, 2015

di Davide Sportillo

Un momento della presentazione de La ferocia alla Libreria Francavillese. Foto: Gabriele Fanelli

Non spaventatevi. Quando uno scrittore decide di mettersi per mare lo fa di solito con l’amorevole proposito di indirizzare la rotta verso il migliore degli iceberg.

Nicola Lagioia, Tre sistemi per sbarazzarsi di Tolstoj

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“Entrò Carla”. Con queste due parole comincia Gli indifferenti di Moravia, con l’entrata in scena della protagonista femminile. Negli interni sempre chiusi e poco illuminati del romanzo di Moravia l’azione facilmente diventa teatrale, ed ecco che il lettore-spettatore osserva il personaggio-attore: entrò Carla. Semplicemente, direttamente.

Non così ne La ferocia di Lagioia, in cui la scena si apre su una strada statale deserta, ne seguiamo la carreggiata, poi andiamo oltre il guardrail tra campi, uliveti e ville nascoste, dove brulica la vita di animali notturni, allocchi, grilli e falene; seguiamo queste ultime sciamare attratte dai faretti delle abitazioni e approdiamo in un giardino a osservarne piante e animali. Solo a questo punto la siepe di lato si agita e fa il suo ingresso una figura umana che nuda, insanguinata, barcollante attraversa il giardino. Solo a questo punto “entra Clara”, la protagonista femminile, ma è un ingresso posticipato, rimandato e il lettore osservava la scena già prima dell’entrata del personaggio.

Più che ad un ingresso somiglia ad una irruzione, dandoci l’impressione di una presenza umana portatrice di disordine in un luogo già placidamente abitato, presenza umana invadente, in disarmonia con l’ordine naturale.

Una scena per certi aspetti simile, con l’ingresso posticipato della protagonista e con lo sguardo che indugia sulla vita animale, la troviamo nel terzo capitolo de La scopa del sistema di David Foster Wallace. Qui un bicchiere d’acqua versato da una finestra smuove dei ciottoli che fanno scappare degli scoiattoli su un albero spaventando degli uccellini che volano dal ramo rilasciando un bolo di escrementi su un automobile che in quel momento entrava nel vialetto e dalla quale esce Lenore, la protagonista femminile.

Nessun riferimento diretto o citazione o allusione, ma può essere interessante l’accostamento. Ciò che in Wallace è puro gioco, divertimento virtuosistico, nella Ferocia sembra essere meno accessorio e più funzionale alla trama e all’atmosfera del noir. Nicola Lagioia ha però di David F. Wallace la grande ricchezza verbale, il periodare articolato ma sorvegliato, l’attenzione ai dettagli e all’infinitamente piccolo.

Non c’è solo Wallace naturalmente, e dopo aver navigato nelle acque del postmoderno con i primi due libri — Tre sistemi per sbarazzarsi di Tolstoj e Occidente per principianti — l’autore della Ferocia sembra ancora più maturo e volge lo sguardo a Faulkner o a McCarthy, alla ricerca di una rinnovata fiducia nell’umanità, se possibile.

Dall’antistoricistica e scettica rinuncia di tanta letteratura contemporanea Lagioia getta un ponte alla ricerca di una speranza, rifiutando “di credere alla fine dell’uomo”, direbbe proprio con Faulkner; cercando come lo stesso Michele della Ferocia l’attenzione e lo sguardo di Clara, accorgendosi che ha aperto una ferita e “nella ferita c’è una luce”. Così la narrazione diventa quella di un’epoca, un affresco corale sul presente. Dal gesto estremo di D. F. Wallace all’estremo discorso ufficiale di Faulkner, quello per il Nobel.

Ma non occorre scomodare i giganti americani quando i maestri li abbiamo in casa. Uno di questi maestri per Lagioia è sicuramente Aldo Busi, e così dovrebbe essere per tanti scrittori italiani.

Aldo Busi

Quindi ancor più che da Wallace è da Busi che deriva la grande ricchezza espressiva e stilistica che Lagioia riversa in quest’ultimo romanzo, e quella certa competenza e precisione nel cesellare ogni moto interiore, sebbene, rispetto alla voce monologante e egocentrica che domina i romanzi di Busi, Lagioia scelga il crinale della narrazione a più voci: dove Busi “uccide” il padre, Lagioia racconta la storia anche dal punto di vista del padre.

Ma di matrice busiana ci sembra anche la concezione e l’immagine che nel romanzo si dà della famiglia italiana, questo nucleo faticoso e amaro in cui risiede la quintessenza dell’italianità, luogo di “maldomati rancori” che sa essere cupo e oneroso, o per dirla ancora con Giorgio Manganelli “luogo mentale e sociale nel cui ambito si svolgono caute e diffidenti trattative”.

E così come può darsi tale conflittualità occulta all’interno, così come tutte le tribù può diventare bellicosa verso l’esterno, fino a divenire associazione a delinquere, come la famiglia Lometto della Vita standard di Busi e i Salvemini della Ferocia, vere e proprie cellule criminali, ma di una criminalità non solo tangibile e evidente ma più spesso inconscia e atavica, selvaggiamente naturale e connaturata.

Scriveva Sciascia: “In Italia, la famiglia spiega tutto, giustifica tutto, è tutto. Come diceva Lincoln per la democrazia: dalla famiglia, per la famiglia, alla famiglia.”

È un piccolo stato all’interno di quello più grande, che può arrivare a rappresentarlo e perfino surclassarlo, se è vero che gran parte degli italiani si riconoscevano e si riconoscono proprio nell’assenza di idea dello Stato.

Si tratta di quell’idea che Busi ci dà dell’italianità — se vogliamo di ascendenza sciasciana o pasoliniana — che è un miscuglio di cattolicesimo consustanziato al modo di essere degli italiani e pregiudizio autodenigratorio, che si condanna all’inefficienza e all’imprecisione e a tale condanna si rassegna, ingenerando sfiducia in qualsiasi potere pubblico e visibile e fiducia in poteri più occulti e meno visibili.
Leonardo Sciascia, nell’Affaire Moro, lo chiamava il segreto italiano:

Il segreto italiano e cattolico di disperdere il nuovo nel vecchio, di usare ogni nuovo strumento per servire regole antiche e, principalmente, di una conoscenza tutta in negativo, in negatività della natura umana.

Per finire: torniamo all’apparizione di Carla negli Indifferenti e a quella di Clara nella Ferocia. Destino comune il loro, scritto anche nell’anagramma dei nomi, visto che entrambe sono spinte dalla famiglia stessa verso un certo grado di degradazione morale, entrambe usate per salvarsi dalla rovina. E un’altra cosa hanno in comune, un fratello di nome Michele. Nell’uno e nell’altro romanzo fratello e sorella sono le uniche vittime consapevoli, i lucidi osservatori del declino. Ma se negli Indifferenti il rapporto diretto tra Carla e Michele è quasi inesistente, nella Ferocia Clara e Michele vivono un rapporto stretto e intimo, morboso quasi, e sarà proprio questo a spingere il Michele di Lagioia alla ricerca della verità sulla vita e la morte di Clara.

Infatti il Michele di Moravia arriverà al momento cruciale, all’appuntamento con l’Azione, diciamo così, “a pistola scarica”; mentre il Michele della Ferocia vuole usare tutte le sue cartucce.
“Fare una cosa in luogo di non farla. Farla.”

Davide Sportillo (1988) ha studiato lettere all’Università del Salento. Non fa che parlare di letteratura. Ogni luogo gli è congeniale: seminari, librerie, bar, senza disdegnare panchine e macchine degli amici.

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