Intervista a
Mimmo Castellano

Libreria Francavillese
La chianca
Published in
14 min readJul 31, 2015

di Michele Galluzzo

Trezzano sul Naviglio, Milano
8 maggio 2010

Mimmo Castellano è nato a Gioia del Colle nel 1932 ed è stato un progettista grafico negli anni in cui, in Italia, il mestiere stesso si forgiava e plasmava. È stato un personaggio ruvido e sincero, come la lana della giacca che gli copriva le spalle, come la voce, scavata dal fumo. È morto il 29 luglio scorso. Michele Galluzzo lo ricorda in una intervista di qualche anno fa, quando, incontrandolo, gli ha chiesto come è andata, e come (non) sono cambiate alcune cose.

Foto di Gabriele Fanelli

Cosa rappresenta l’oggetto libro per lei e per la sua storia?
L’etichetta di grafico editoriale ha rappresentato spesso un macigno nella mia esperienza professionale. In realtà il libro è diventato solo per caso un elemento fondante del mio vissuto. Fare libri, infatti, è stata un’esperienza assolutamente occasionale dovuta al fatto che, nel deserto civil-culturale della Bari di allora, esisteva una casa editrice di un certo rilievo, la Laterza, che presentava, al tempo, copertine assolutamente neutre.

Laterza, per l’appunto. Cosa ha significato per lei lavorare per ventiquattro anni in tale realtà editoriale?
Mi chiamarono, dopo aver percepito la necessità di cambiamento, e cominciai a lavorare per loro; tuttavia, con un approccio piuttosto provinciale e privo di ogni consapevolezza del mestiere. Solo in seguito la collaborazione con Laterza è diventata un lavoro importante, continuativo, durato ventiquattro anni. Giuseppe Laterza era un ingegnere e mi garantiva carta bianca nella progettazione delle copertine. In seguito, subentrato il figlio Vito nella direzione della casa editrice, la mia situazione prese a mutare, soprattutto a causa della strana concezione che Vito Laterza possedeva del lavoro del grafico. Vito concepiva il grafico come un prolungamento della sua mente. Da qui ovviamente ebbe inizio l’attrito.
In questo contesto risultava considerevole la componente politica nelle scelte della casa editrice. In quegli anni Laterza aveva feeling con i socialisti; cominciò a pubblicare una collana affidata all’architetto Portoghesi (che la impaginava anche) e stampata presso la tipografia barese della casa editrice, la quale tuttavia non era assolutamente adeguata alla stampa di libri illustrati. Il risultato fu assolutamente deplorevole: frutto, per altro, del lavoro di architetti che avevano (e hanno tuttora) la debolezza di fare il mestiere dei grafici. Questi album, che erano dei revival degli anni ’40-’50, risultarono davvero orrendi. Proposi allora a Vito Laterza di riflettere sul dovere di un’impresa editoriale di tenere conto della qualità del prodotto e, ovviamente, della sua estetica. Alla vigilia delle vacanze estive, gli chiesi di dare un’occhiata alla manciata di libri stampati, con risultati eccellenti, in una tipografia esterna alla Laterza, nel periodo in cui il papà Giuseppe era a capo dell’azienda. Gli proposi anche di sfogliare il mio libro fotografico Paese lucano, prodotto dalla Eni, al fine di ripensare la produzione di libri illustrati o fotografici in casa Laterza. Al rientro dalle vacanze, Vito, sogghignando, decretò che Paese lucano non era un reportage sulla Lucania, ma lo specchio di Castellano. Chiaramente non aveva capito nulla. Per Vito la fotografia si riduceva ad un atto depersonalizzato, il cui soggetto riproduceva sciattamente la realtà senza la mediazione dell’autore.
Nel frattempo io mi ero trasferito a Milano e mi recavo ogni mese a Bari a produrre le schede dei libri che dovevano essere stampati nei tre mesi successivi. Le schede contenevano informazioni relative a formato e colori. Allora si lavorava in economia e, privi anche dei mezzi attuali, le copertine erano stampate a due o tre colori al massimo. Nonostante le schede fossero preparate in collaborazione, non erano rare le sorprese in stampa. Quando i libri comparivano sul mercato, ritrovavo copertine cromaticamente differenti rispetto a quelle pianificate. Quando chiedevo conto a Vito della variazione di colore imprevista, mi veniva chiesto, di rimando, se il colore scelto a mia insaputa fosse poi così male.
Era chiara la frattura e il rispetto flebile del mio operato. Diventava impossibile andare avanti. Tornato a Milano, scrissi una lettera di dimissioni, accolta poi favorevolmente. Successivamente, consegnai a un libraio la quasi totalità dei libri Laterza che possedevo, in cambio di altri libri.

In cosa consisteva il suo ruolo e con chi lavorava o collaborava nel quotidiano? Era lei che si occupava del disegno delle illustrazioni?Naturalmente lavoravo da solo in casa Laterza. Con Vallecchi mi servii con successo della collaborazione di un illustratore pugliese: Mario Lovergine. Per Laterza, fatta salva qualche incursione sporadica nell’impaginazione interna, non mi occupavo che delle copertine. Sceglievo tuttavia le carte con cui differenziare anche al tatto le varie collane.
Laterza mi ha permesso di farmi conoscere grazie a un rapporto duraturo e mi ha cucito addosso un’etichetta notevole; tuttavia, sono state altre le esperienze nelle quali la mia attitudine da fotografo mi ha permesso di intervenire considerevolmente nella progettazione grafica.
Se è vero che i libri prodotti con Laterza durano nel tempo, d’altra parte li percepisco come poco connotati e ambigui esteticamente.
Quanto alle immagini di copertina: accadeva che nei momenti di vuoto creativo, per far fronte ad una produzione di copertine davvero notevole, ci si industriasse in modi singolari. A volte bastava strappare fogli di carta in piccoli pezzi da disporre a caso, cercando di trovare il senso alla composizione generata. Molto spesso funzionava.

Vallecchi, quindi… Cosa era cambiato rispetto a Laterza? Che bagaglio si portava dietro e che realtà incontrava?
Nel ’72 la Montedison compra la Vallecchi: la casa editrice chiede la mia collaborazione ed io comincio a fare la spola Milano-Firenze. Nel giro di due anni ho progettato una decina di collane in totale libertà. In tale biennio ho ricevuto la medaglia d’oro della Presidenza della Repubblica, il Premio Bodoni Parma e un altro riconoscimento che ora non ricordo più… Ad ogni modo, in due anni ricevere tre riconoscimenti ufficiali la dice lunga sul mio operato al di fuori della casa editrice Laterza. Arrivavo a Vallecchi con una rabbia compressa, causata dagli eventi occorsi con Laterza, per la cattiva interpretazione di Vito della figura del grafico e di ciò che ne era derivato. Caso esemplare: in casa Laterza, la scelta della copertina per il libro delle favole di Basile (a cui tenevano tanto) mobilitò per tre mesi intere riunioni di redattori, con risultati discutibili. Ciascuno di loro si intrometteva nel mio lavoro, correndo così il rischio di un risultato “eclettico”, piuttosto lontano da un autentico progetto grafico.
A Vallecchi curai anche l’interno dei libri, garantendo maggior omogeneità al prodotto. Compimmo un lavoro davvero notevole con una collana di libri di Pierre Renouvin, sulla storia del mondo. In quel caso effettuammo un’operazione straordinaria inserendo, in ciascun volume, una selezione di immagini curata da esperti.
Lavorava in Vallecchi anche Carlo Ludovico Ragghianti, che avevo conosciuto a Firenze nel ‘72, ma che già dieci anni prima aveva espresso pareri lusinghieri relativi al mio libro fotografico Moods pubblicato per Leonardo da Vinci. Ragghianti aveva intenzione di pubblicare una storia dell’arte italiana e studiammo così assieme come riuscire a progettare libri anticonvenzionali, nei quali testo e immagine potessero adeguarsi a una griglia elastica, lasciando la preminenza ai contenuti. Proposi un progetto a lettura multipla, che evadesse dalla concezione dei testi rigidi impaginati a due colonne (si tenga presente la difficoltà di impaginare i testi in maniera libera, senza l’ausilio dei software attuali di impaginazione) e che rispondesse a criteri di lettura corrispondenti alla gerarchia delle informazioni.

Foto di Gabriele Fanelli

Cosa significava concretamente lavorare presso la Vallecchi, la quale, negli anni precedenti al suo arrivo, si era avvalsa del lavoro di Bob Noorda e dello studio Unimark?
A dire il vero, il lavoro di Noorda è stato completamente ignorato a partire dalla scomparsa del marchio da lui disegnato (che non mi convinceva e che costituiva un’anomalia all’interno del suo percorso di designer). Quanto a Noorda sono occorse vicende personali che vanno al di là dell’esperienza in Vallecchi e che mi portano ad essere scettico riguardo ad una parte del suo operato.
Nel 2005 il Politecnico di Milano ha consegnato una laurea ad honorem a Noorda. Lo conoscevo da una vita , fin da quando lavorava con Vignelli allo studio Unimark. Noorda ha fatto bene molte cose, ma non è mai uscito dalle due dimensioni. Alla notizia della laurea ad honorem ho pensato all’opportunità di avere più oculatezza e meno opportunismo politico nella distribuzione di riconoscimenti. Ho ruminato questo pensiero a lungo. Non è un mistero che Noorda fosse ben introdotto negli ambienti che a Milano contavano; la scelta, fatta con leggerezza e piaggeria, dispiacque a molti che avrebbero probabilmente meritato più di lui un riconoscimento ufficiale.
Credo che oggi, nella situazione in cui ci troviamo, con questi falchi della Padania che vogliono mettere proprio le distanze tra nord e sud, vanno assolutamente ripensate operazioni che valorizzino e riscattino il sud. È triste che tra i grafici sia diffuso un modo di essere che li spinge a tenersi lontano dalla politica. Noi siamo completamente implicati in queste cose tutti i giorni, e paghiamo le conseguenze di questo disastro nazionale che si perpetra almeno dall’apertura di Fanfani ai socialisti nel ‘62. Tale apertura ha comportato l’inserimento, nei settori pubblici relativi alla cultura, di personaggi spesso incompetenti, strettamente legati alla politica nazionale. I democristiani allora affidavano le consulenze per la scelta dell’immagine di queste aziende a laici esterni, con criteri meritocratici. È stato il degrado seguito al ‘62, penetrato in maniera così capillare nel sistema clientelare, a spingermi ad abbandonare Bari nel ‘67, per mancanza di lavoro.

Ci sono esperienze editoriali, che non hanno avuto la visibilità delle pluriennali esperienze presso Laterza e Vallecchi, a cui comunque si sente legato? Mi parla delle esperienze precedenti o contemporanee all’arrivo in Laterza? L’editore Leonardo da Vinci o Dedalo o la Eni, per esempio.
Ho ritenuto sempre tanto positiva la collaborazione con Leonardo da Vinci, contemporanea alla mia produzione in casa Laterza. La statura culturale di un Diego De Donato (direttore della Leonardo da Vinci) non era minimamente paragonabile alla chiusura mentale di Vito Laterza.
Per Leonardo da Vinci ho progettato collane, copertine e gabbie interne, che avverto estremamente più vicine alla mia sensibilità di quanto non lo fossero le pubblicazioni con Laterza. In principio la casa editrice Leonardo da Vinci pubblicava manualistica relativa ai millesimi condominiali; con l’arrivo di Diego De Donato la casa editrice cominciò a fare esplorazioni diverse nel campo dell’editoria, introducendo una collana relativa ai grandi viaggiatori. Conobbi Diego a Bari. Mi condusse nel deposito della casa editrice, zeppo di scaffali pieni di libri non venduti. Gli garantii che saremmo riusciti a venderli tutti, facendo delle nuove sovraccoperte, un nuovo vestito, ma in economia. La collaborazione è durata a lungo, fino al momento in cui Diego De Donato non ha scelto di vendere la casa editrice. Anche con Dedalo di Raimondo Coga, seppur in maniera meno consistente, ho seguito la progettazione di collane e il disegno di singole copertine.
Il dato interessante è che, mentre nei ventiquattro anni di attività presso Laterza non ho ricevuto neppure un riconoscimento ufficiale, contemporaneamente, a Bari, con la Leonardo da Vinci, ho vinto un premio di notevole importanza, il Bancarella, per la copertina di Ore giapponesi di Fosco Maraini (copertina per altro progettata in modo rocambolesco senza il consenso dell’autore). Eccezionalmente quell’anno il Premio Bancarella premiava la migliore copertina del biennio ‘58-‘59.
Per Dedalo, invece, sempre nel periodo “laterziano” ho ricevuto un premio Art Director Club Milano e un premio Centro per la Cultura nella Fotografia.
Una collaborazione di cui sono particolarmente contento è quella con Biblos Edizioni con la quale ho pubblicato solo due libri: un’autobiografia relativa alla mia produzione artistica negli anni ’90 e un libro realizzato per conto della provincia di Bari nel 1991: Viaggio in provincia. In quest’ultima pubblicazione (per altro l’ultima pubblicazione che mi abbia visto al lavoro come designer editoriale) sussiste una progettazione sistematica, guidata per esempio dal colore che individua la sezione, che risponde a leggi di gerarchia delle informazioni ben scandite. C’è una differenza ottica di corpo e di giustezza per cui il lettore è automaticamente guidato nella lettura secondo una priorità di informazioni.
Ho inoltre collaborato con Feltrinelli per locandine e materiale promozionale e con Einaudi per la riedizione di un libro edito precedentemente da Leonardo da Vinci.

Mi parla invece del giallo relativo alla copertina di 1984 di Orwell, progettata da Germano Facetti per la Penguin?
Facetti ha commesso un reato denunciato dalle leggi sul diritto d’autore, condivise, immagino, da ogni Paese.
Nella copertina progettata per la Penguin, appare evidente un dettaglio di una mia foto pubblicata nel ’60 sul volume Moods, edito da Leonardo da Vinci. Facetti ha tagliato indiscriminatamente un dettaglio della mia foto, senza citarne in alcun modo la fonte, e (dettaglio ben più grave) manomettendola con l’inserimento di un occhio non presente nella mia composizione.

Come si approcciava alla sistematicità delle griglie nella progettazione di una nuova collana? Quali erano i parametri che si dava nella progettazione delle sue collane?
Innanzitutto sono molto volubile, per cui un lavoro fatto viene ben presto accantonato. La creazione delle griglie era fatta sempre in base ad un singolo progetto. Inoltre credo di aver raggiunto il perfezionamentob nell’ultimo libro che ho progettato, Viaggio in provincia, per Biblos Edizioni. Lì sussiste un equilibrio di gabbia perfetto, che d’altra parte non avrebbe funzionato in altri contesti. Bisogna affrontare il problema da capo ogni volta.
Fondamentale per un autodidatta è adoperarsi per non avere nulla da meno rispetto a coloro che si sono formati in modo “accademico” (e che rischiano, a loro volta, di standardizzare il loro operato). Il caso esemplare è Max Huber che impaginava i libri di fotografia macellando le immagini sotto i colpi del proprio metodo ortodosso. A Huber non importava niente delle fotografie, a lui interessava l’architettura della pagina. Era in quel caso una grafica in funzione di se stessa e non della comunicazione.

Nelle realtà editoriali a cui ha accennato come si relazionava all’idea di longevità quando si trovava a progettare una nuova una collana? Quale è a parer suo la collana da lei progettata che meno ha avvertito il passare del tempo?
Certamente la collana dei Saggi Vallecchi. Per altro il successo della stessa nel tempo è stato decretato dall’abbondante plagio compiuto negli anni dall’ineffabile collega Michele Spera.

Ha influito in qualche maniera, nella progettazione delle collane, l’esperienza delle correnti d’avanguardia dei ’60 e su tutte quella vissuta dall’arte programmata in Italia?
Ho prodotto lavori che tendevano ad essere ibridi nelle loro influenze. Dal momento che mi interessavo di tante cose, cercavo di esplorare un po’ tutto, senza prendere direzioni determinate e senza scegliere una strada precisa piuttosto che un’altra.
Accadeva che mi impadronissi di qualcosa, che la mettessi da parte per farla poi riemergere altrove. Avendo inoltre una preparazione che deriva dal latino, dal greco, dalla filosofia e dalla storia, è ovvio pure che l’approccio alla grafica sia stato molto differente rispetto alle speculazioni di molti dei miei colleghi.

Foto di Gabriele Fanelli

Quanto è importante per lei la copertina di un libro nell’economia e nella vita del libro stesso?
La copertina fa vendere il libro.

Editoria fotografica: mi parla dei suoi tre libri fotografici di inizio ’60 (La valle dei trulli, Moods, Paese lucano)? Che relazione intercorreva tra la fotografia e il libro? Che ruolo attribuiva alla fotografia?
Quanto alla scoperta del ruolo delle immagini come mezzo narrativo autonomo, sono debitore di un personaggio che non conoscevo, dal quale ricevetti una lettera in cui mi veniva spiegato cosa avevo fatto inconsapevolmente con Moods. Luigi Crocenzi, quindi non fece altro che raccontarmi il processo mentale che io ignoravo di aver eseguito.
Luigi ha cominciato la sua carriera come fotografo, collaborando anche con Elio Vittorini nel libro Conversazione in Sicilia.
In seguito Crocenzi ha abbandonato la fotografia divenendo un filosofo, un filosofo dell’immagine. Da lui ho imparato moltissimo, e l’uso che io ho fatto delle immagini come narrazione lo devo solamente a lui. Ne La valle dei trulli, non avendo ancora conosciuto la figura di Crocenzi, non non è percepibile questa scansione e questo uso della fotografia; in seguito ho pubblicato Paese lucano e Noi vivi (con la prefazione di Umberto Eco) che risentono della sua influenza. Se Crocenzi non mi avesse spiegato che cos’è un romanzo visivo, io avrei continuato a fare fotografie e a impaginarle in maniera casuale. Al contrario tutte le storie hanno avuto un loro svolgimento logico, impaginate con occhio grafico. Noi vivi è soltanto frutto di una delle nostre chiacchierate. In una di queste, Luigi mi propose di pensare ad uno Spoon River fatto con le immagini. Umberto Eco scrisse nella presentazione: “[Castellano] ha intitolato il libro a chi è rimasto in vita, alla ricerca di parallelismi, coincidenze visive, simmetrie tra il mondo detto dei morti e i presentimenti di morte in un mondo dei vivi. (…) La morte sta altrove, anche se i cimiteri tentano di farcelo dimenticare”.
Con Luigi avevo anche in progetto di produrre un libro che, come un makimono giapponese, si sarebbe dovuto srotolare, diviso in tre livelli (uno per la grafica, uno per la fotografia e uno per il testo) relativi a temi (quali ad esempio la burocrazia o l’immigrazione).

Quali sono i designer o gli intellettuali di cui maggiormente si è nutrito, che più stimava e che più l’hanno ispirata nel lavoro editoriale?Indubbiamente Luigi Crocenzi, come già detto. In secondo luogo Leonardo Sinisgalli. Litigavamo pure. Il frutto migliore della relazione che ho coltivato con figure del calibro di Crocenzi e Sinisgalli è stato Paese lucano del 1964, commissionato dalla Eni con la presentazione dello stesso Sinisgalli. Italo Zannier scrisse a proposito di Paese lucano parole lusinghiere, annoverandolo tra le opere più importanti prodotte da un fotografo in Italia nel dopoguerra.
Sinisgalli era nato a Montemurro, comune della Lucania, e nell’esperienza di produzione di Paese lucano mi consigliava di andare per i comuni con la Linhof. Ma spesso in Lucania capitava di arrivare in un paesino e tutti correvano subito a farsi fotografare. A dieci chilometri di distanza, in un altro paesino, accadeva che la popolazione si chiudesse ermeticamente in casa per paura della macchina fotografica. Io quindi mi ero inventato uno strumento: una sorta di periscopio, caratterizzato da un tubo e uno specchio a 45°, che ponevo davanti all’obbiettivo in maniera tale da non far percepire ai soggetti di essere fotografati. Era quindi impossibile usare macchine di grande formato; di qui una storica litigata che culminò con un
grande abbraccio.

Quanto le sue sperimentazioni tipografiche in tre dimensioni sono andate a convergere nel lavoro di progettazione editoriale?
Il lavoro relativo alla ricerca della terza dimensione nelle lettere, compiuto senza l’ausilio del computer, è maturato fondamentalmente negli anni ‘80. In quel periodo io ero già a Milano e avevo sostanzialmente concluso le esperienze editoriali sia presso Laterza che presso Vallecchi.

Quanto l’evoluzione tecnologica ha influenzato il suo modo di progettare le copertine?
Quando è arrivato il computer tutti i miei coetanei hanno cominciato a fare gli schifiltosi e gli scettici, salvo poi servirsi di ragazzi capaci di “smanettare” sui software, e utilizzarli come loro tramite. Ma è chiaro che in tal modo il risultato risulta evidentemente diverso. È come un marito che delega ad un giovane aitante le attività sessuali con sua moglie.
Oggi viviamo in un mondo che solo vent’anni fa non avremmo potuto immaginare. Progetti che ai tempi della grafica tradizionale non avrei mai potuto fare e nemmeno immaginare. La creatività dipende anche dalla conoscenza dei mezzi di cui si può disporre.

Cosa è cambiato secondo lei nel gusto estetico italiano negli anni che l’anno vista in prima linea come art director delle case editrici di cui sopra?
La società è cambiata nella misura in cui è mutata la televisione con la sua sciatteria commerciale che ha contagiato anche la Rai, la quale prima dell’avvento di Berlusconi era maestra nella promozione di scelte culturali e artistiche di prim’ordine.

Mi toglie una curiosità? Perché Leonardo Sinisgalli la definiva un “entomologo”?
Ci tengo tanto a questa definizione. Pensavo addirittura di usarla per i biglietti da visita come “graficoentomologo”. L’entomologo studia al microscopio gli insetti, appunto. Sinisgalli aveva colto il fatto che io tendo a vedere sempre i dettagli nelle cose, e spesso sono proprio gli stessi dettagli che propongo, anziché l’insieme.

L’intervista è stata realizzata nell’ambito del corso di Progettazione per l’editoria tenuto dal prof. Leonardo Sonnoli presso l’Isia di Urbino, nell’anno accademico 2009–2010.

L’editing è a cura di Brigida Bonghi.

Michele Galluzzo (1985) si è laureato in Design e comunicazione per l’editoria presso l’Isia di Urbino. Attualmente conduce a Milano la sua attività di graphic designer e porta avanti ricerche storiche nell’ambito della storia della grafica italiana come dottorando presso il corso di Scienze del Design dello Iuav di Venezia e come assistente alle ricerche nel Centro di Documentazione sul Progetto Grafico Aiap di Milano. Il suo sito è www.michelegalluzzo.it.

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