La cesura

Libreria Francavillese
La chianca
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6 min readDec 10, 2015

La cesura è il secondo romanzo di Andrea Dei Castaldi. Esce domani (11 dicembre) per Barta. Pubblichiamo di seguito il primo capitolo dell’opera. Ringraziamo l’editore e in particolare Gaia Tarini.
Buona lettura.

Oggi è il giorno in cui seppelliamo Nina. Quan­do scendiamo dall’auto per qualche secondo il silenzio riempie le orecchie, poi il muggire sordo della statale ci raggiunge da lontano con l’aria fredda, a raffiche. Mi stiro guardandomi intorno, e subito mi ricompongo vedendo Ignazio immobile accanto alla portiera chiu­sa, con gli occhi fissi rivolti a terra.
«Ricordo quando qui ci stavano i tuoi nonni, e noi si passava l’estate in bicicletta», gli dico accennando alla vecchia casa con gli scuri inchiodati, e nel silenzio la mia voce risuona sciocca. Ricordo anche i conigli appesi per le zampe alla trave del portico sul retro, e come strillavano, ma questo lo tengo per me. Durante il viaggio Ignazio non ha aperto bocca, e io non ho nemmeno cercato qualcosa da dire. Lo immaginavo diverso, questo ritorno a casa. Dopo tutti questi anni, anche se non mi ha sorpreso, mi ha fatto male il sor­riso vuoto di mia madre, il suo chiedersi chi sono. E poi Ignazio sulla porta di casa sua, come non ci vedes­simo che da pochi giorni. «Fortuna che sei qui», mi ha detto, «Marta non ce la fa ad accompagnarmi, domani».
«Nacio», gli dico allora più piano, «ci sei?». Lui si scuote e mi sorride come sorpreso. «Scusa, Leo, pensavo», dice allora guardandosi attorno a sua volta. Oltre il cortile un vigneto spoglio getta ombre contorte.
«Meglio se facciamo in fretta», aggiunge poi più secco. «La luce qui se ne va presto».
Accanto all’edificio l’erba senza sole scricchiola sotto le scarpe. Troviamo gli attrezzi dietro una porta di lamiera sul retro, dove un campo incolto porta lo sguardo lontano, fino a un filare di gelsi lungo un fosso soffocato dai rovi.
«Sembrano mani», dico guardando la fila di alberi grigi, mentre Ignazio afferra deciso un piccone e una lunga pala appuntita tra i ferri scuri di ruggine.
«L’hai mai scavata una fossa?». Me lo chiede con voce incolore porgendomi la pala, dopo aver chiuso la porta alle sue spalle con una pedata. Io scuoto la testa aggrappandomi di peso al lungo manico di legno curvo. Indosso i vestiti sbagliati, ma sono i soli che ho messo in valigia.
«È dura, la terra», aggiunge lui stringendo appena gli occhi. Lo guardo attraversare il campo a lunghi passi regolari, facendo dondolare il piccone al suo fianco fino a descrivere traiettorie quasi concentriche. Poi si blocca di scatto e lascia vagare lo sguardo tutto intorno, e solo allora lo raggiungo, quando già il primo affondo del piccone spacca le dure zolle in superficie. Lavo­riamo senza dire una parola fino a rimuovere almeno un paio di spanne di terra scura. Sono io il primo a fermarsi piantando la pala con forza di poco discosta dalla buca, colla faccia rossa e le mani a stringermi le cosce, e per un po’ resto a guardare Ignazio menare colpi al pietrame sul fondo senza apparente fatica. Poi si ferma anche lui a tirare il fiato, con la fronte lustra nel vento freddo.
«C’è da prendersi un malanno», dico allora tor­nando ad afferrare il manico della pala. Lui grugnisce sollevando le spalle.
«Basterà mezzo metro…», dice poi guardando mesto la fossa ai suoi piedi.
«In fondo non occupa molto spazio. Se poi la si copre per bene, non serve mica andare tanto più giù». Così gli dico, ma lo vedo farsi ancora più cupo e mi zittisco. Riprendiamo a scavare, ancora senza una paro­la e senza guardarci in faccia una volta, fino a quando Ignazio getta via il piccone con un tonfo fiacco. Allora entro nella buca e ne cavo dal fondo alcuni sassi, men­tre lui se ne sta seduto imbronciato sulle erbacce con le gambe distese.
«Ci vado io, a prenderla», gli dico poi, e torno svelto oltre la casa fino all’automobile. Il sacco di plastica nera che levo dal sedile posteriore è più pesante di quello che ricordavo. Certo, prima l’abbiamo portato in due. Me lo getto oltre una spalla curvandomi un poco per mantenere l’equilibrio. Il tepore molle sulla schiena mi dà appena un brivido di disgusto, mentre torno impacciato ad attraversare il campo. Ignazio già mi si fa avanti con le braccia tese, a passi troppo piccoli per i suoi novantacinque chili, fino a levarmi il peso di dosso quasi con delicatezza.
«Aspetta, dai qui», mi dice in un sussurro. Ora viene la parte peggiore, penso guardandogli gli occhi.
«Vuoi che lo faccia da solo?». Glielo chiedo veden­dolo appoggiare cauto il sacco accanto alla fossa ed esitare.
«Non lo dire neanche», mi risponde brusco, ma con qualcosa di incerto nella voce che è ancora quella di un ragazzo. Esita con le grosse braccia appese lungo i fian­chi, e io mi accuccio accanto al fagotto nero e lucido.
«Aveva dieci anni», dice Ignazio come tra sé guar­dando il vuoto. «Dieci come gli anni che io e Marta siamo sposati». Ecco, ci siamo, penso. Ignazio tira su col naso e lascia andare un sospiro. Poi bestemmia a labbra strette scuotendo la testa, e sembra mettere a fuoco solo allora il sacco informe ai suoi piedi.
«Dài che la finiamo qua», dice come sputando fuori le parole, e si accuccia a sua volta di fronte a me. L’aria si è fatta più scura, la statale ora la si può vedere di lon­tano come una striscia di luci colorate scosse dal vento. Apriamo piano il sacco rivoltandone i bordi con cura. Nina se ne sta acciambellata come se dormisse, con le zampe ripiegate sotto la pancia gonfia, e il pelo bianco e irto a chiazze nere prende a fremere ad ogni folata.
«In fondo è soltanto una cagna», dice Ignazio cogli occhi lustri. Prendiamo la bestia per le zampe e la ada­giamo piano sul fondo della fossa, per poi ricoprirla di terra con una fretta improvvisa che ha qualcosa della paura. Poi Ignazio fa alcuni passi lì attorno e raccoglie una grossa pietra liscia e tre tarassachi dalla testa piega­ta. Quando ho finito di appiattirla col dorso della pala li pone sopra il cumulo di terra smossa.
«Qui starà bene», dice poi andandosene senza dare un’ultima occhiata. Io rimango impalato a guardare il grosso sasso tondo e quei tre fiori gialli che più che colti sembrano strappati e gettati a terra. Penso a Silvia, mi chiedo se non mi abbia già cercato da ieri sera, dopo che ho spento il telefono. Sembra tutto così ridicolo, senza valore, ora, visto da qui. anche gli ultimi giorni a Milano, l’ufficio vuoto con i neon che si sentivano cre­pitare, e poi io che sto sul treno mentre Silvia mi aspet­ta e già fa spazio tra le sue cose negli armadi. E perché invece sono qui dove sono, a trecento chilometri di distanza dal suo appartamento, con questi gelsi grigi, ora appena più scuri dell’aria intorno, tesi a chiedere qualcosa al cielo.
Al ritorno vuole guidare Ignazio, ora sta meglio, dice, ma resta troppo silenzioso. Io guardo oltre il vetro la campagna dissolversi contro la prima periferia. In un angolo del finestrino, proprio accanto alla mia faccia, c’è uno sbuffo umido di fiato. Durante il tragitto dalla casa all’ambulatorio, Nina ha guardato la strada e gli alberi e le automobili con gli occhi vuoti e la testa ciondolante, pigiando il naso contro il vetro, soltanto un’ora fa, sbavando e col respiro che raschiava. Ignazio le ha parlato piano all’orecchio fino a quando non ha chiuso gli occhi dopo l’iniezione. «Avete fatto la scelta giusta», gli ha detto poi il veterinario dandogli una pacca sulla spalla. Tocco il vetro ancora umido con la punta delle dita, e penso ai conigli appesi per le zampe sotto al portico, a come strillavano più forte quando il vecchio Dante gli si faceva accanto.
«Nacio, non ho più tempo», dico. Mi esce così, un pensiero sfuggito di bocca, e subito mi chiedo se sia sufficiente, se non debba dire altro, anche a me stesso. Poi però penso che è già tutto lì. Ignazio continua a tenere gli occhi sulla strada e non dice nulla, ma sono certo che ha capito.

Andrea Dei Castaldi è nato nel 1973 e vive nel borgo trevigiano di Asolo, di cui ama il silenzio e le pietre. Ha pubblicato il racconto Pelle, apparso nel volume Solo a cura di Raffaella Tancredi (Felici, 2011), e i romanzi Finistère (Barta, 2013) e La cesura (Barta, 2015).

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