La forma minima della felicità

Libreria Francavillese
La chianca
Published in
5 min readMay 20, 2015

Pubblichiamo un estratto dal romanzo La forma minima della felicità (Baldini&Castoldi) di Francesca Marzia Esposito, uscito lo scorso aprile. Ringraziamo l’autrice e l’editore per questo dono in esclusiva per La chianca.
Buona lettura.

Ci vivevo sul divano. Il divano era equidistante da tutto il resto della casa, il letto era troppo a nord, la cucina a sud, il divano era perfetto. Era sera, era pomeriggio, forse era solo che stava preparandosi a piovere e dalla tapparella non entrava luce. Aprii la finestra, mi affacciai, una goccia mi colpì la guancia. Pioveva diagonale. Minuscoli ombrelli scuri si spostavano rispettando un tracciato ortogonale fatto di angoli a novanta gradi, alcune teste sprovviste di calotta correvano a casaccio infastidendo la mappa. Si trasformò in grandine, il cartello non avrebbe resistito. Avrei dovuto mettere un annuncio in rete, ecco cosa avrei dovuto fare, ma il mio portatile si era rotto anni fa, un giorno funzionava benissimo, il giorno dopo si era schiantato a terra per sempre. L’unica era comprare un avviso, di quelli già prestampati, plastificati. Li vendeva la cinese di Tutto un euro, in piazza, vicino o lontano erano due concezioni speculari e interscambiabili della mia definizione di distanza. Smise presto. La grandine non ha resistenza. Io sì, molta. Le fessure orizzontali della tapparella si accesero, si formò un reticolato di luce accecante. Aprii del tutto l’infisso, Milano sgocciolava all’aria pulita e ricomposta. Rumore di nocche rovesciate, guardai in direzione della porta. Non aspettavo nessuno. Casa mia non vedeva nessuno da — E poi avrebbero dovuto passare dal portone, citofonare. Mi avvicinai a talloni sollevati. Anche da piccola facevo così, a mia madre venivano dei coccoloni, all’improvviso si girava e mi trovava così, una figurina in mezzo al niente. Mi diceva che ero invisibile, sparivo e ricomparivo. Io sorridevo. Io sono invisibile. Io non sorrido più.

Dallo spioncino una pupilla enorme si stava sfocando. Mi staccai, mi riavvicinai. L’occhio era ancora lì, come volesse spingermi. Aveva smesso di bussare, stava schiacciando a vuoto il campanello, fece un passo indietro, e vidi la bandana. Lui non lo sa che sono in casa. Potrei essere ovunque. Che ne sa lui che sono qui. E poi non mi ha nemmeno avvisata. E poi a quest’ora non è ora. Non è mai ora a nessuna ora, per me. Tanto lo so che ci sei, disse. Un mezzo sorriso acchiappò la faccia convessa oltre la lente. Lasciai passare secondi eterni, poi feci rumore con il catenaccio. Una bandana bianca a ghirigori neri gli stringeva la fronte, dall’elastico del giubbino di pelle usciva una striscia azzurro pantone, una di quelle sue maglie XXL col numero. Sei in pigiama, disse. Entrò, chiusi la porta. Non vedevo Yuri da Natale. Natale dell’anno scorso non è esistito. E nemmeno quello dell’anno prima. Natale capita ogni cinque anni. Natale del 2007 è esistito, poi più. Era in piedi, al centro della stanza, gli occhi che giravano da tutte le parti. Non era mai stato a casa mia. Intendo in questa casa, da quando ci abitavo solo io. Cinque anni. E nemmeno io a casa sua. Ne aveva cambiate lui di case, con Selene, e prima di Selene. Le scarpe da ginnastica con le fiamme laterali mi ipnotizzarono. O forse erano ali. Si tolse il bomber. Come se avesse appena finito una partita di basket, gli anni non gli erano serviti a niente, era rimasto fermo alle Nike, allo sport, all’alba dei suoi trentaquattro anni. Non che io fossi andata da qualche altra parte, con il mio anno di vantaggio. Mi affl osciai sul divano, esattamente sopra la coscia del mio pigiama c’era un buco. Mamma mi ha detto che non esci mai, disse. Seguii le fiamme-ali che calpestavano il parquet, si avvicinavano alle pile di libri. Le sue orme tra le mie cose a terra. Avevo molte cose a terra. Le cose vanno messe quasi tutte a terra. Una delle fiamme-ali slittò su qualcosa, lui si chinò, raccolse un pennarello, lo appoggiò sul tavolo. C’era di tutto là sopra, bicchieri, tazze, mutande, calzettoni spaiati, confezioni di cereali aperte, un vasetto di yogurt svuotato, il cucchiaino ciucciato attaccato su un vecchio «Corriere della Sera». Il tavolo del soggiorno era un plastico buttato giù a zampate dal gatto. Gatto che non avevo più. Le punte delle sneakers si fermarono al groviglio di fili elettrici, davanti all’Africa, o alla tele, che poi era quasi la stessa cosa. Una foto e il suo negativo, io e mio fratello. Yuri uno e novanta, io nemmeno uno e settanta. Yuri capelli castani lunghi a coda, io capelli nero blu corti sulla nuca. E aveva tutto un apparato muscolare che si era faticosamente costruito negli anni, lo stesso tempo che avevo impiegato io nell’eliminare qualsiasi tipo di vigore fisico dal mio. Ce l’hai un succo? sto morendo, disse. In cucina gli riempii un bicchiere d’acqua, addentò anche una merendina all’albicocca che trovò allungando il braccio sulla mensola, quella sopra il frigo, dove c’era il cassetto delle posate senza posate. Accostò l’osso sacro al lavello, guardò la parete, le mensole smontate, lo spazio vacante tra i fuochi e i cassetti.
Manca qualcosa, disse fissando il vuoto al posto del forno.
Ce l’hai già, una casa.
La lascio a lei, mamma ti avrà raccontato.
E Bambina?
Non parla più.
Che vuol dire.
Sono giorni che non parla più. Né con me, né con la madre. L’ultima litigata è stata un casino, quando sono andato nella sua cameretta, l’ho trovata seduta in un angolo, con le mani si tappava le orecchie. Da allora, muta. Quanto prendi al mese?
Non posso chiederti l’affitto.
Perché no?
Perché quella è anche casa tua.
So che non stai lavorando. Dimmi la cifra.
Quanto hai intenzione di rimanere. Spero non per molto, non lo so.
Si sedette sul tavolo, una delle fiamme-ali si mise a ciondolare. Fissai la rotula robusta che sgranava il denim sul suo ginocchio. Non so dove andare, Luce, disse e fece gli occhi all’ingiù. Yuri aveva un lavoro, un taxi, Bambina, Selene, e ora voleva anche la mia casa, e a diritto, in più, facendomi l’elemosina, perché avrei dovuto prendere il suo denaro. È vero, mia madre aveva lasciato a me l’appartamento da affittare, lo aveva fatto poco prima di trasferirsi, quando era venuto fuori il nome di un tale e che andava a vivere con un maschio conosciuto per caso in un bar. Mia madre non aveva mai avuto un uomo e all’età di sessant’anni se ne veniva fuori questo tizio sconosciuto. E così, da vera parassita, l’immobile in cui vivevo era suo, e i soldi dell’affitto del 51 erano miei. Yuri si toccò il fazzoletto stretto sulle tempie, si riassestò la calzata. Ma quando lavori ti conci così? dissi. Fece un sorriso breve, poi la faccia gli si spense. Gli diedi le chiavi, disse che aveva le cose giù.

Francesca Marzia Esposito vive a Milano, insegna danza.
Si è laureata al Dams di Bologna, ha conseguito un master in Scrittura per il Cinema all’Università Cattolica di Milano. Alcuni suoi racconti sono stati pubblicati sulle riviste: Granta, ‘tina, Colla, GQ e altri.

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