La guerra di Luciano

L’incredibile passaggio in Puglia di Luciano Bianciardi

Libreria Francavillese
La chianca
11 min readDec 14, 2015

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Come fu che Luciano Bianciardi finì a vivere tra Locorotondo, Oria e Manduria (passando per Foggia, Taranto, Brindisi e Lecce) durante la Seconda Guerra Mondiale? Ce lo racconta un preziosissimo documento a cura di Luciana Bianciardi, figlia dello scrittore e intellettuale toscano nato il 14 dicembre del 1922.
L’articolo è uscito per la prima volta nel 2006, sul numero 1 della rivista
Cummerse (pubblicazione a cura del centro di ricerca e documentazione storica della Biblioteca Comunale e dell’Assessorato alla Cultura di Locorotondo). Si ringrazia la testata per la gentile concessione. Un ringraziamento speciale per l’editore e poeta Antonio Lillo per aver fatto da tramite.
Buona lettura.

di Luciana Bianciardi

Prima di diventare il giornalista, il traduttore e soprattutto lo scrittore che il mondo culturale degli anni ’50 e ’60 ha salutato come una delle voci più autorevoli del momento, grazie al grande successo personale ottenuto in seguito alla pubblicazione de La vita agra, Luciano Bianciardi ha vissuto un lungo periodo buio, irto di difficoltà lavorative, economiche e sociali dovuto non solo all’oggettività della situazione contingente, ma anche al suo carattere difficile e scontroso, facile agli entusiasmi così come alla depressione anche se, contrariamente a questa affermazione, sono molti gli episodi della sua vita che mettono in luce il lato conviviale del suo carattere. Chi lo ha conosciuto da vicino, chi lo ha frequentato negli anni difficili delle traduzioni a un tanto la cartella, fatte di corsa, sempre con l’ansia di non arrivare — ancorché, nel loro essere, siano ancora oggi riconosciute come traduzioni maiuscole — racconta come gli riuscisse facile fare amicizia, intrattenersi con chiunque, anche con gli sconosciuti, usare un linguaggio colto e nello stesso tempo capace di arrivare in profondità anche in chi, ed erano in molti, allora, non aveva grande dimestichezza con la cultura.

I primi anni della sua vita di intellettuale Bianciardi li trascorre a Grosseto, dove si sposa e ha un figlio, Ettore, nato nel ’49, e una figlia, Luciana, nata nel ’55. A pochi passi dalla cosiddetta “piazza della Vasca” fonda un cineforum, che nelle sue intenzioni dovrebbe stimolare l’attenzione dei suoi concittadini verso il cinema d’avanguardia, diventa direttore della Biblioteca Chelliana, inventa il Bibliobus, con il quale, anziché i lettori ai libri, porta i libri ai lettori, girando per le campagne grossetane su uno scalcagnato furgoncino carico di volumi che quasi mai faranno ritorno sugli scaffali della biblioteca, e scrive articoli per vari giornali, tra cui la Gazzetta di Livorno, Il Contemporaneo, Belfagor. Tuttavia, in quella che per l’epoca e per il luogo in cui si svolge potrebbe sembrare una vita iperattiva, si verifica, inatteso, un episodio che immobilizza il tempo e che segnerà tutta la sua esistenza futura. Infatti, toccato profondamente dalla morte di 43 minatori, “tutti suoi amici”, come li definirà spesso nei suoi scritti, periti nello scoppio della miniera di Ribolla il 4 maggio del ’54, lo scrittore trascorrerà gran parte della sua vita con un chiodo fisso: “vendicare” quelle morti e quella che lui riteneva essere una grave colpa della Montecatini, proprietaria di questa e di altre miniere toscane, nei confronti dei propri dipendenti.

Quando nel ’54 Giangiacomo Feltrinelli lo chiama a Milano, dove sta per nascere la nuova grande iniziativa culturale democratica — la casa editrice Feltrinelli, appunto, della quale lo scrittore grossetano dovrebbe diventare una colonna portante — Bianciardi è intimamente convinto di aver trovato il mezzo attraverso il quale portare a termine la sua “vendetta”. Non riuscirà nell’intento perché la “bomba” che idealmente avrebbe voluto collocare dentro la sede della Montecatini, in largo Donegani, a Milano, non riuscirà mai a scoppiare. La “bomba”, infatti, rappresentata dal suo capolavoro, La vita agra, avrebbe dovuto essere un libro di denuncia, un libro che, dopo la scalpore, avrebbe dovuto chiedere e ottenere giustizia per i suoi amici minatori morti, un libro che, scoppiando nelle mani dei responsabili della grande azienda milanese, avrebbe dovuto, nelle intenzioni di Bianciardi, far crollare con immane fragore il colosso che in quel momento era la Montecatini. E non solo: attraverso la critica amara — agra — e penetrante dello scrittore, lo stesso “sistema” avrebbe dovuto subire uno sconvolgimento e un mutamento profondo. Fra i tanti teoremi espressi da Bianciardi, emerge su tutti la dichiarazione che egli affibbia al cosiddetto “miracolo economico”, un miracolo al quale, a posteriori, la storia muove le stesse critiche mosse molto tempo prima — proprio durante il suo divenire — che si leggono nelle magistrali pagine de La vita agra.

Ma nulla di tutto ciò che aveva sperato Bianciardi accade: la bomba non deflagra. E il perché del fallimento dei propositi bianciardiani risiede proprio nell’avvenimento che lui avrebbe voluto evitare, la sconfitta è implicita nel successo — parola che egli, all’epoca, definì argutamente come “il participio passato del verbo succedere” — di critica e di pubblico che La vita agra ottiene sin dal suo apparire nelle librerie italiane.

Pochi sanno — perché pochi ormai sono rimasti quelli in grado di testimoniarlo — quanta sia stata la fatica che lo scrittore ha dovuto gettare nel suo lavoro prima di ottenere — successo o fallimento che fosse, dipende so lo dai punti di vista — il riconoscimento del proprio valore di intellettuale. Pochi, oggi, sono disposti a negare il ruolo fondamentale che gli insegnamenti del Bianciardi strenuo “ribaltatore di carte su carte” hanno avuto su intere generazioni di giovani traduttori, su coloro i quali, avviandosi alla misconosciuta e difficile carriera, hanno avuto in lui un impareggiabile maestro, pochi gli negano il giusto posto nel panorama della letteratura italiana del Novecento, ma tutti sono invece concordi nel riconoscergli una superiore capacità di anticipare le conclusioni di azioni che, nel suo tempo, stavano per cominciare a svolgersi.

La sua fine, difficile e agra, così come è stata l’intera sua esistenza, avviene quasi nell’anonimato, in solitudine, come in fondo aveva vissuto — malgrado la vicinanza di coloro che gli sono stati attorno — in un ospedale della periferia milanese. Anche questo lui aveva previsto. Poco tempo prima di morire aveva detto: “Sopportatemi, tanto duro ancora per poco…”
Grande lucidità, preveggenza, parole gettate a caso nel vento? Chi può dirlo…Come si è detto, Luciano Bianciardi ha vissuto gli anni della sua formazione giovanile a Grosseto, una città di provincia, come molte nel nostro paese, una città a corto di idee, di talenti, in balia dei “localisti”, senza sbocchi culturali, soprattutto negli anni dal ’22 — anno in cui Bianciardi nasce (e nasce anche il partito fascista che egli avverserà fin dall’inizio) — al ’40 — anno in cui lascia Grosseto per trasferirsi in università a Pisa dove, dopo l’interruzione degli studi dovuto al secondo conflitto mondiale, si laureerà in Filosofia con una tesi su John Dewey. Dopo la laurea torna a Grosseto ma qui trova una città, stretta nella morsa dell’inazione culturale, che si rivela ben presto inadeguata alle aspirazioni del giovane Luciano; lui, però, non si perde d ‘animo e, proprio dalla sua città, inizia il percorso che lo condurrà a diventare un vero intellettuale.

Tuttavia, prima di affrontare le difficoltà intrinseche della vita che si è scelto e che lo condurrà a una fine prematura, forte solo dei suoi vent’anni, Bianciardi viene in contatto con i momenti più difficili della guerra nelle vesti di allievo ufficiale, quando deve interrompere gli studi universitari per presentarsi al comando militare. Gli episodi della sua esperienza di vita militare sono contenuti nei diari che il giovane Bianciardi tiene e aggiorna con costanza davvero certosina, persino sotto i bombardamenti, e che recentemente sono stati ripubblicati, assieme alle opere maggiori, da un binomio di case editrici, giovani e coraggiose — ExCogita e ISBN — nel volume dal bianciardiano titolo de L’antimeridiano.

La chiamata alle anni coglie Bianciardi studente del terzo anno alla facoltà di Lettere e Filosofia alla Normale di Pisa. Non può opporre la resistenza che forse vorrebbe adottare nel frangente e, assieme a molti altri, come lui del tutto ignari delle cose militari, parte per Stia dove viene inquadrato nel 7° Battaglione Istruzione al lievi ufficiali.

“Debbo dire subito che non ricordo più niente di Stia, nel Casentino, com’è fatto il paese, se la campagna è bella, da quelle parti, dov’è Romena, dov’è Poppi, da che parte scorre l’Arno, che nasce a pochi chilometri da lì.”

Inizia così uno dei pezzi che in seguito Bianciardi dedicherà ai ricordi, una serie di piccoli affreschi raccolti sotto il titolo Vita militare, in cui egli rammenta — o addirittura non rammenta, dato l’incipit sopra riportato — i primi momenti della “sua” guerra.

“Non so se quella notte dormii: era stato tutto come un incubo, quando tutto è possibile, e non si sa quello che può accadere, e non si capisce niente di quello che succede, e neppure si desidera capire.”

Queste sono le parole con cui si chiude la descrizione della prima giornata di guerra dell’allievo ufficiale Bianciardi Luciano.
L’istruzione sommaria che gli allievi ricevono a Stia viene giudicata sufficiente affinché i giovani siano inviati alle destinazioni assegnate. Assieme a molti suoi commilitoni, Bianciardi parte per Foggia, dove giunge la notte tra l’8 e il 9 luglio del ’43. Pochi giorni dopo, il 15, gli americani lanciano un bombardamento sulla città a cui, a distanza di una settimana, farà seguito un secondo attacco. Nel pomeriggio dello stesso giorno a undici allievi ufficiali, tra cui Bianciardi, viene affidato il compito — terribile nella cruda descrizione che di essa ci restituisce lo scrittore nel pezzo intitolato L’ultima lettera che scrissi a Mariagrazia — della raccolta dei cadaveri per le strade di una Foggia distrutta e martoriata dopo il bombardamento americano del 22 luglio del 1943.

L’esperienza crudele lascia i suoi indelebili segni nell’animo sensibile di Bianciardi che, poco più di vent’anni più tardi ci restituirà l’immagine disumana e spietata di quei giorni e di quel ricordo in un racconto dal titolo Natale coi fichi.

Tuttavia la vita — e la guerra — continua. Il 25 luglio del ’43 il battaglione parte da Foggia diretto a Copertino, dove arriva il giorno dopo. Qui, tra momenti di grande incertezza e confusione, dovuti soprattutto alle notizie frammentarie che giungono dopo l’armistizio dell’8 settembre e la conseguente fuga di Mussolini, rimane fino all’8 ottobre quando, per una decisione improvvisa, i militari vengono caricati su un treno e mandati a Manduria e poi a Oria.

Da Manduria a Oria ci sono undici chilometri che il battaglione percorre a piedi. A metà strada, sorge il campo d’aviazione americano e i soldati d’oltreoceano si fanno sul ciglio della strada per salutare gli italiani che sfilano coraggiosamente davanti a loro malgrado la fatica e la perduta baldanza giovanile. Giunti a Oria — dall’altra parte del colle, come rammenta Bianciardi — si accampano e fanno turni di guardia alla polveriera sita in località masseria Campanella. Attorno al campo c’è fermento: i soldati, affamati, sporchi e sfiduciati, cominciano a intrattenere con qualche abitante — soprattutto un tale Salvatore, che, sono parole di Bianciardi, compera di tutto — una specie di commercio di teli da tenda e sigarette.

“Ma era un traffico minuto e meschino, vergognoso. Bisognava organizzarsi in grande stile, catturare una parte, una porticina piccolissima della gran nube d’oro che stava passando sul cielo di Puglia. Bisognava scoprire l’America.”

E l’America Bianciardi la scoprirà proprio nella tappa successiva del suo peregrinare in terra di Puglia. La faccenda dci commercio, infatti, va avanti sino a metà gennaio quando, grazie a una licenza di sei mesi, lo scrittore grossetano, in in compagnia di un commilitone, Donato, parte da Oria diretto a Locorotondo, dove arriva la sera del 18 gennaio del 1944.

A Locorotondo, in previsione di poter insegnare al ginnasio di Conversano e Martina Franca e di dare lezioni private, accetta l’ospitalità di Donato. Conosce don Luigi, che gli procura, oltre a qualche cena, anche un vestito e due stanze in una casetta di campagna. Lavora, impartisce lezioni, conosce Leonardi, assistente delle ferrovie Sud-Est, il “compare” di Noci e altri che lo invitano spesso a pranzo.
Tuttavia Bianciardi fatica ad inserirsi nel tessuto sociale del luogo: diverse le abitudini, diverse le conoscenze, diverse le esperienze e, soprattutto, diverso da quello pugliese il carattere dello scrittore, piuttosto chiuso e introverso sin da allora. Eppure, come Bianciardi stesso lascia intendere fra le righe del suo aggiornatissimo diario, sul percorso che porta da Locorotondo ad Alberobello, dove c’è una gelateria e poco più avanti un passaggio a livello, riesce a imbastire persino una storia sentimentale di cui, tuttavia, sappiamo poco e che, magari, è rimasta solo nelle sue intenzioni.

Rimane sei mesi a Locorotondo. Qui conosce il tenente Medhurst del Genio inglese, oxfordiano, che gli propone di seguirlo come interprete. Bianciardi accetta. Sarà proprio questo il primo passo verso quella “scoperta dell’America” che egli sperava di fare e che gli consentirà di costruire la propria storia. Luciano va dapprima a Lecce e poi a Taranto al seguito del comando inglese, con il grado di sergente. Da Taranto, nel dicembre del ‘ 44, si trasferisce a Brindisi, dove rimane fino a luglio del’ 45.

La guerra è finita. Tra il 15 e il 22 dello stesso mese Bianciardi è in viaggio, raggiunge Faenza, Forll, Pisa, e finalmente torna a Grosseto. Casualmente è l’8 settembre. Ma del 1945.

Qualche tempo fa, guidati dagli scritti che Luciano Bianciardi ci ha lasciato, abbiamo seguito le tracce del suo stesso percorso in terra di Puglia: Foggia, Copertino, Munduria, Oria, Locorotondo, Lecce, Taranto, Brindisi.
Tutto è diverso eppure tutto è rimasto uguale, addirittura, in qualche caso, il tempo si è cristallizzato attorno al ricordo. Il famedio dei caduti sotto i bombardamenti di Foggia, tra i quali, con ogni probabilità, giacciono quei diciassette corpi pietosamente raccolti e composti da undici ragazzi poco più che ventenni; la fontana di Copertino — l’unica del paese, dice Bianciardi — e i campi di uva sparsi a perdita d’occhio attorno alle case; Manduria e la strada, diritta come una fucilata, che porta a Oria, a metà della quale ancora oggi si possono vedere le costruzioni diroccate del campo d’aviazione americano del ’43, accanto a un moderno villaggio turistico; Oria, il suo castello e la contessa, la nebbia che ha nascosto il paese agli aerei che bombardavano la zona, la polveriera in località Campanella, ancora lì a testimoniare il ricordo di un passato impossibile da dimenticare; Locorotondo, bianca sul colle, distesa e placida, la casa di Donato, la chiesa di don Luigi e, incredibile a dirsi, l’incontro con il trombettiere del reggimento che, pur avendo origini diverse, dopo il conflitto si è fermato lì e ha messo su famiglia; poi la moderna Lecce e il suo frenetico movimento; quindi Taranto, il ponte mobile, i due mari; e infine Brindisi, ideale punto di partenza verso il ritorno a casa di Luciano Bianciardi.

Un viaggio nel tempo, a ritroso eppure attuale, un viaggio in cui si sono mescolati il passato e il presente con incredibili coincidenze, incontri con la gente pugliese, calda come il suo sole, affabile e disponibile al dialogo e al ricordo, ritrovamenti importanti o di semplici tracce; un viaggio affascinante, quasi magico in una terra facile da amare, ma di non facile comprensione per un intellettuale toscano degli anni ’40 che non era mai uscito dalle mura della sua città, ma che, grazie anche a questa esperienza fortemente formativa, sarebbe diventato uno degli scrittori più importanti degli anni ’50 e ’60.

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