La Tenebra di Gela — Orazio Labbate

Libreria Francavillese
La chianca
Published in
4 min readMar 22, 2016

Pubblichiamo un racconto inedito di Orazio Labbate, che abbiamo ospitato l’anno scorso in libreria per presentare Lo Scuru, suo romanzo d’esordio.
La foto che accompagna il testo è di
Daniele Argentiero.
Buona lettura.

Al crepuscolo cadaverino, quello finale, abbandonai Butera ché raggiungessi Gela.
Sorreggevo una sacca che conteneva un accendino, una croce minuta e altresì una bussola. Dovevo adorare il Santo, ora dormiente nel suo altare, didentro un’oblunga cassa. Il Santo si era infatti manifestato in sogno reclamando la mia presenza nel luogo dove giaceva. Mi vociava, sempre nel sonno, assumendo prima la forma di scheletro, vestito da chierico, e poi quella di un tenue e fragile lucore contraffatto, che una volta giunto dentro la città il Portone mi sarebbe stato concesso, il grano del territorio si sarebbe incendiato, e che varcata la soglia, una speciale geografia bastarda avrebbe indicatomi cosa fare.

La strada, durante il viaggio, era scannata da piccoli mantelli di stelle, le bestie urlavano di là dai campi, cani, gufi e animali mitici, che sembravano, ai lati, mentre scorreva la via, denutrite sembianze. Di tanto in tanto, per raccogliere fiato, rivolgevo una guardata allo scenario, mentre un cielo lillà si decomponeva a causa delle luci notturne del petrolchimico: le interiora delle case ficcate oltre la pianura, le fiaccole distanti sollevate forse dai campagnoli perché venisse il demonio per la raccolta. Il vento intanto tuonava come una preghiera segreta alle mie orecchie.
Così dalla sacca rubavo la croce, e sibilavo pacatamente, simile a un gatto invecchiato, rime, evocazioni verso la misericordia di Dio, al cielo, ché di certo c’era un demone dietro a quelle strambe manifestazioni del paesaggio.
Quindi trassi, colle dita avvolte dallo scirocco, la bussola insieme alla torcia, ma l’ago era morto e la luce della torcia tremava assente. Sentivo sopra di me gli astri, epperò il buio li incarcerava e li tagliava. Allora continuai il camminamento per un sentiero sconosciuto, dritto, con la testa inchinata, e sentivo i piedi non più piedi, ombre di piedi. I canneti fischiavano come uomini senza lingua. I pali della luce croci si infuocavano spontaneamente.
Qualcheduno mi trainava come se nella carne avessi fantasmi. E senza che il mio corpo avesse il tempo, quasi trascorso privo di una sua maturazione, ormai con gli occhi orbati dalla rabbia, di sopra la lanterna della Chiesa Madre, la luna si distinse in mezzo alla notte invernale. Solo grazie a essa, unica bussola cosmica, io, buterese, trovai finalmente la Cattedrale.
Tuttavia, prima di penetrare nella chiesa, mentre la città era già addormentata, curioso intravidi, nei pressi di una stretta viuzza a sinistra del Duomo, una putìa che ospitava nella sua facciata la statua della Madonna. Protetta da un vetro opaco, la figura era fatta, pensavo, certamente ingannato dall’estasi, d’una materia fantasmatica, le cui orbite, per tale ragione, seppur vacanti, mi apparivano rosse della Trinità. Poi lento e curvo, poiché la notte stava sprofondando, nel giardino denutrito, dietro alla chiesa scorsi un fuoco acceso ai piedi di un albero morto il quale proteggeva, tra le radici, il cuore di un uccello. Nessuno vegliava attorno alla fiamma, soltanto qualche corvo che si avvicinava a essa che però, poi, di colpo, forse impaurito dalle braci zampillanti, risaliva l’animale verso la tenebra e l’illuminazione dei barbagli chimici dello stabilimento. La luce si diffondeva sino a una campana immobile, circonvicina, le cui incisioni erano santi e vescovi dei quali non riuscivo a sapere il nome poiché la luce batteva precariamente sull’oggetto. E proprio quando cogli occhi ispessiti impegnavo la mia ragione a studiare la campana, sentii il portone della chiesa sbattere come se invocasse me.
Corsi atterrito verso quel richiamo mentre l’ombra mi traballava, come una sedia priva di un piede, perché qualcosa si scapicollava per rubarla.
Affannato salii i gradini pietrosi che conducevano al portone ora spalancato. Lì una persona indossante una tunica nera, la cui faccia era impossibile da tradurre, mi fece segno di entrare nella chiesa. C’aveva però una coda acuminata come le spine selvagge delle radure desertiche tutt’attorno Gela. E sopra la testa una fiamma blu.
Dentro il santuario il cuore prese a infiammarsi e le costole a singhiozzare mentre una mappa incominciava a descrivere nei miei pensieri cosa dovevo compiere.
Dapprima giunsi all’Altare dell’Immacolata il cui dipinto si animò. La Sacra Vergine ritratta sopra una nuvola nera, infatti raccoglieva la mantella di lei attraverso gli angeli e coll’indice suggerì alla mia coscienza il silenzio, dopo i moti inarrestabili dei miei peccati. Dopodiché, frattanto ascoltando l’organo, che suonava solitario requiem sconosciuti, la potenza mi rivolse al coro i cui i profeti legnosi, i quali caricavano la struttura, vociarono al mio cuore i pesi dell’oscurità. E il cuore batteva impazzato e pareva carbonizzarsi per quanto accelerava e la cupola della chiesa partoriva squilli di trombe ad avvertirmi della caducità delle mie ossa.
Poi tutto cessò.
Levitavo, come uno di quei tavoli spiritati durante una seduta nelle case di campagna, in direzione della reliquia del Santo, e venni posto vicino alla mano di Esso, che ora era ossuta, di color argento, splendente come una spada. Il Santo strinse la mia testa, con la rassegnazione di un vecchio spirante al capezzale mentre questi vede la riunione metafisica impazzita laggiù oltre le sue orbite. Allora raccolse la mia faccia per dirigerla verso la propria bocca.
Lì dentro mi addormentai, per sempre.

Ora, a Gela, dove vivo quale spirito, ho il compito di suggerire alle persone, raccontando la mia storia, per tramite di segnali bastardi, chi sarà il Diavolo nell’Aldilà.
E seppure io sappia che non sono, che dimoro senza dimorare, talvolta mi ritrovo, la notte, di ritorno alla vita. Lacrimo quando spio il mio cuore di carbone, intrecciato nelle mani del Santo. Provo a uscire dalla chiesa per studiare le stelle, ma non ho la chiave e la bestemmia, quella supplicante Dio. So, nonostante questa sorte indistruttibile, che di sopra il petrolchimico, e di sotto il Mediterraneo ne esistono, altre.
Sono buie, le stelle.

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