Morfina (una riscrittura)

Libreria Francavillese
La chianca
Published in
8 min readDec 18, 2015

di Marco Lupo

Illustrazione di Fabio Cesaratto

Friedrich Glauser
1932

James Crumley ha scritto che saccheggiava Chandler a piene mani, e che lo diceva anche Eliot: «I cattivi scrittori copiano, i buoni rubano. Questa, lui l’aveva rubata a un poeta francese».
Tutti dovremmo fare lo stesso con Glauser: ti trasporta nei manicomi a vedere il muco incrostato sui muri, a sentire le cinghie strette del lettino, la camera di isolamento con la luce sempre accesa; ti fa vedere un dito tagliato da una cesoia in una serra dove i giardinieri lavorano duro tutto il giorno. Sudi con lui e ti succhi il sangue.
Glauser scrive i suoi racconti e tu scrivi le sue perizie psichiatriche. Ti chiede che cos’è che spinge gli uomini alla costrizione, alla prigione. Lui è un pericolo per la comunità, la sua mente troppo lucida, tormentata, inibita.

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La gente arriva alla morfina per vie traverse. Io sono arrivato alla morfina per vie traverse. Tutti arrivano alla morfina per vie traverse. C’era la guerra, ne parlavano tutti, si alzavano e si sedevano, si addormentavano e si toccavano, e sempre la guerra c’era. Bisognava ignorarla, pensavo, anche se vivevo in un paese neutrale.
La gente invidia quelli che tollerano l’alcol. Purtroppo la gente sottovaluta quelli che tollerano l’alcol senza ubriacarsi. Così cercai una sostanza e trovai l’etere. Il suo odore penetra i vestiti e si aggrappa alla gola come sangue mestruale, il suo sapore intorpidisce il palato e preme sui denti, mentre i polmoni si gonfiano, si sgonfiano, e ogni respiro è un sibilo. Poi venne la febbre, una notte il sangue uscì dalla bocca. Emorragia polmonare. A mezzanotte infilai il cappotto, scesi le scale che portavano alla strada e chiesi di un medico. Ecco la prima iniezione di morfina, accompagnata da un bibitone a base di acqua e sale. Me la ricordo bene l’iniezione. La gente parla di cose che non conosce. Io parlo di cose che non conosco. Invece quella sensazione la conosco.
Sei perfettamente sveglio. Una specie di felicità nebbiosa pulsa nelle vene e vela gli occhi.
La cosa migliore, per uno che come me aveva le tasche vuote, era non pensarci. Così vivere di niente perse importanza, e la fortuna era solo un’altra iniezione, un’altra ancora. Posso dire che il mio corpo, anche se la gente potrebbe non capirlo, il mio corpo era un unico sorriso. Rimasi sveglio fino all’alba.

La settimana dopo la padrona di casa entrò per l’affitto. Io raggomitolato, piedi freddi, sangue dalla bocca. All’ospedale mi diedero un lettino e un’infermiera con gli occhi blu. Dopo un paio di giorni notai che l’armadietto dei medicinali non era chiuso a chiave. Ogni tanto prendevo una pasticca di morfina e la mandavo giù. Avrei preferito le siringhe, ma non ne avevo. Poi la notte era bellissima, come le notti in cui il pensiero è netto, dormire non serve, e tu pensi, scrivi poesie.
Uscito dall’ospedale ero assuefatto, ma non credo che sarebbe stato difficile smettere. Così non presi niente per settimane, finché non andai a Ginevra. Ero di nuovo senza niente, niente denaro, nessun lavoro, mangiavo quando capitava. La gente ha quasi sempre un lavoro. Ma quando non ce l’ha dovrebbe distrarsi. Così facevo io. Ricominciai con l’etere, ma l’odore non era cambiato e i miei padroni di casa smisero di salutarmi. Perciò chiesi al farmacista che me lo procurava di darmi qualcosa di più forte, la morfina per esempio. Era gobbo, quel farmacista, e non chiedeva la ricetta.
Devo dire che allora le leggi sugli stupefacenti non erano severe come oggi. Iniziai per via aerea, la appoggiavo sulla lingua, la mandavo giù e aspettavo che scendesse. Durò poco. Acquistai una siringa e tutto cambiò. Riuscivo a lavorare per ore senza alzarmi dalla sedia, scrivevo fino a quindici pagine al giorno, e poi davo lezioni di tedesco e francese. Il cibo non era un problema. Non ce n’era bisogno. Il denaro lo davo tutto al farmacista. Al gobbo. Al sadico che smise improvvisamente di darmi la morfina.

La gente reagisce quando un ostacolo impedisce il corso degli eventi. Io chiesi una mano a un vecchio amico, figlio di un farmacista, e quello mi insegnò a formulare ricette di questo genere:
Mo. mur. (morphium muriaticum, che equivale a hydrochloricum), acqua distillata e l’indicazione che si trattava di iniezioni.
La gente è stronza però. Un farmacista si insospettì e telefonò al medico, quello a cui avevo rubato la firma. Un ciccione con i baffi rossi e la fronte sudata e la divisa da poliziotto venne a trovarmi a casa. Un bel confronto con il farmacista stronzo che aveva sporto querela, una bella verbalizzazione in presenza del commissario competente, una bella firma, e poi, dopo l’ammonimento amichevole, mi lasciarono libero.
La gente non sa che non ci si può disintossicare da soli. Impossibile. Non si può. Due giorni dopo ero di nuovo davanti al commissario. Avevo rubato una bicicletta gialla, quel tanto di bicicletta da bambina che bastava a garantirmi un po’ di morfina. E finii dentro, la prima notte nella cella comune: una di quelle stanze che la gente che va a vedere casa rifilerebbe al figlio più piccolo, un buco di stanza sei metri per quattro, assi come brandine, la latrina giallognola all’angolo che scrosciava con precisione cronometrica ogni cinque minuti. Eravamo in venti, eravamo piccoli, lunghi, ubriachi, autisti, ladri, gente così.

La gente non dovrebbe andare in carcere a luglio, ma neanche a gennaio. La gente intorno a me sudava, si muoveva sulle assi/brandine, sbatacchiava i piedi e parlava nel sonno. Io tremavo, il freddo dell’astinenza che ti fa alzare in piena notte e battere i pugni contro la porta. Il secondino venne, disse qualcosa a proposito del morfinomane e mi fece bere un enorme bicchiere di rum. Poi mi portò in un’altra cella, e mi lanciò delle coperte. Eravamo solo in due, ora. Un uomo che vomitava vino e io. Non so perché, ma l’uomo piangeva. Lo consolai e per un po’ smisi di pensare a me.
Giorno dopo. Trasferito. St. Antoine. Cella singola. Male, molto male. La gente non vorrebbe saperlo ma io lo scrivo lo stesso. Diarrea. Vomito. Diarrea con vomito. Panico. Diarrea e panico. Dolori. Fortissimi dolori. La morfina è così. Lei è la proroga delle proroghe. La usi per mesi per non soffrire, per non pensare, per pensare meglio. Ma un giorno, alla fine, mette la parola fine. Svieni. La gente dice “perdere i sensi”. Tra uno svenimento e l’altro ero triste. Pensavo alla poesia di Verlaine, quella che scrisse in carcere. Pensai di rompere i coglioni ai secondini. Pensai anche che suonare continuamente la campanella sarebbe stato un buon modo per farlo.
Mi spostarono di cella. Una spia tedesca, uno scassinatore, un evaso e io. Ma venne il medico e mi trasferirono in ospedale. Avevo il naso che gocciolava. Starnutivo. Starnutivo dieci volte di seguito e il cuore smetteva di pompare. Il cuore è strano. Poi sbadigliavo. Lo facevo così tanto che mi venivano i crampi alle mascelle. Il lenzuolo si scioglieva e bruciava come peperoncino, come ortica, cadeva rotolando, finiva quasi sempre per strozzarmi.
La gente parla spesso di paradisi artificiali, riferendosi agli stupefacenti, ma ignora che la crisi di astinenza è inferno artificiale.
Un amico mi fece un favore. Mi fece dichiarare pazzo. La cosa può sembrare strana, ma era sempre meglio di una condanna. Il mio marchio: dementia praecox.

Istituto psichiatrico di Bel-Air. Istituto psichiatrico di Münsingen. Istituto psichiatrico di Ascona.
Dovete ammettere che la vita di un morfinomane non è interessante come le vite della gente che vive altre vite. Ci si limita a periodi in cui si prende la morfina, e a periodi in cui la società ti costringe a disintossicarti. L’assuefazione, però, è una porcheria, la si può vedere in molti modi, ma io resto di questa idea. Il fatto è che la nostra società europea si è organizzata in modo che un morfinomane viene considerato “anormale” già dall’inizio. Forse perché la droga fa di te un individualista. Pensaci. L’alcol induce alla socievolezza e scatena una certa dose di violenza. L’oppio produce sensi di inferiorità, anche se in Oriente la storia è diversa.
La morfina (compreso l’oppio, è chiaro) rimuove le inibizioni, ma il corpo crea degli antidoti, i nervi si contraggono, la dose aumenta. Per uscirne, quindi, non basta volerlo. Ma perché si ricomincia, chiede la gente, se si conosce già il futuro?
Non lo so. Forse è come quelle storie d’amore in cui nulla spiega perché si resta insieme, ma si resta insieme.

Ora dovrei anche dire che non mi sono concentrato solo sulla morfina. Ho conosciuto la cocaina, per esempio, e i pazzi che sentono le voci, e una volta in Belgio ho indossato il vestito buono, inghiottito sei grammi di veronal, tagliato le vene con lametta Gillette, solo perché avevo sentito qualcuno parlare male di me. Il giorno dopo ero sveglio, vivo e insanguinato. Andai in ospedale, rimasi lì per un po’, feci anche l’infermiere, e per qualche mese smisi di toccarla. Poi diedi fuoco alla mia stanza. Mi rinchiusero nella cella dei pazzi furiosi. Da allora ho smesso con la cocaina.
Dopo la cella dei pazzi furiosi mi trasferirono con i lucchetti ai polsi a Münsingen, voi lo sapete, già c’ero stato, e poi a Witzwil, per un anno, per condotta dissoluta.
Lì mi diedi al giardinaggio. La morfina non la toccavo più. Ma provai con l’oppio.
Rischiai di nuovo il carcere per via di un farmacista che mi lasciava solo in farmacia quando andava a prendere nel retrobottega l’aspirina che gli avevo chiesto. Ma non mi ci mandarono. Mi ci mandai io, di nuovo a Münsingen, per disintossicarmi.
Di giorno lavoravo in un vivaio, e la sera tornavo dentro. Iniziai anche l’analisi. La cosa che la gente non sa e che dovrebbe sapere è che durante l’analisi si disimpara a mentire. Non parlo della menzogna quotidiana, quella necessaria alla vita sociale, ma di quella più infima: il mentire a se stessi. Ti dicono di dire la prima cosa che ti viene in mente, le prime volte. E la gente pensa che sia facile. Ma tu preferiresti attraversare il canale di Gibilterra a nuoto con cento meduse incollate sulla schiena. E impari presto che non si può dire tutto.
Imparai anche che ero un “sofferenzadipendente”, che ero felice solo in prigione o in manicomio, che la morfina reprime la sessualità, che ci ero arrivato dopo una storia d’amore finita male.
Mesi passarono. Niente morfina. Niente. Ricominciai. Nuova disintossicazione. Nessun risultato.
Di nuovo farmacia. Una nuova città, e io che me ne fregavo di tutto, niente musei, niente paesaggi, niente di niente, farmacie grazie.
Poi smisi ancora. Ora la domanda è questa, ed è solo mia, la gente non c’entra: questa volta ce la farò?

Marco Lupo ha un passato sepolto in una terra straniera, un presente che sfiora il cliché del libraio che scrive e un futuro che forse assomiglia a un racconto di Ballard. Beve dalla stessa bottiglia da cui bevono altri scrittori, riuniti sotto la stessa foglia, TerraNullius. Sta scrivendo un romanzo. Ha paura di averlo finito.

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