Marineschule Mürwik, Germania

Tutti in griglia, Cadetti!

Intervista a Paolo Verzone

Libreria Francavillese
La chianca
Published in
7 min readOct 14, 2015

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di Gabriele Fanelli

Paolo Verzone è un fotografo italiano, nato a Torino nel 1967, che da diversi anni vive a Parigi. La sua fama di fotografo ritrattista è riconosciuta dalle continue collaborazioni con le migliori testate della stampa internazionale: Time, Le Monde, Geo, Newsweek, The Independent, Sunday Times, Liberation, GQ, Amica, Rolling Stone, Sportweek, Vanity Fair, Marie Claire, solo per citarne alcune. Le sue fotografie sono presenti nelle collezioni del Victoria & Albert Museum di Londra, della Bibliotheque Nationale de France di Parigi e dell’Istituto Nazionale per la Grafica di Roma.
Osservare i ritratti di Paolo Verzone significa capire perché, quando si fanno le classiche foto di famiglia o di qualsiasi altro gruppo, in cui gli alti stanno dietro, i bassi avanti e tutti guardano l’obiettivo (di solito, la nonna sta seduta e lo zio che fa la foto esclama un “sorridete” schioccando le dita nell’aria), quelle fotografie ci sembrano sempre un po’ banali, belle perché ci sono le persone a cui vogliamo bene, ma banali: perché quello è uno schema classico, che ripetono tutti, semplice e che va bene per tutte le occasioni, dai matrimoni alle feste di compleanno, e che forse nei circuiti ufficiali funziona bene solo per le squadre di calcio. Uno schema che ha la sua importanza nella storia sociale della fotografia: ma è evidente che non sempre basta avere un gruppo di persone allineate e non basta che quelle persone siano importanti per noi o per qualcun altro. Lo stesso vale per i ritratti di persone singole, quando molte volte non basta inquadrare e scattare, senza tenere conto dello sfondo, della luce. Per fare un buon ritratto, al di là del quotidiano, ci vuole dell’altro, ciò che un buon fotografo non può ignorare. Quell’altro che, quando diventa maestria, supera la banalità e la retorica, e sopratutto si riconosce. Nell’intervista che segue abbiamo parlato con Paolo del suo ultimo lavoro, Cadetti, una serie di bellissimi ritratti realizzati nelle migliori accademie militari d’Europa.

Military Academy Karlberg, Svezia

Parliamo di Cadetti, il tuo ultimo lavoro, col quale hai ricevuto un riconoscimento molto importante: il terzo premio al World Press Photo nella sezione ritratti. Di cosa parla questo progetto e perché hai deciso di realizzarlo?
Il lavoro è nato da un assegnato di Amica, nel 2009 il mensile mi ha commissionato una serie di ritratti dei giovani cadetti dell’Accademia Militare di Saint-Cyr in Francia. Da quella prima esperienza è nata l’idea di estendere il lavoro alle principali accademie militari d’Europa (marina, aviazione, esercito).

Quanto tempo hai impiegato per realizzare Cadetti e quanti sono gli Stati europei coinvolti?
Il progetto è cominciato nel 2009 e terminato nel 2014, 16 paesi e 20 accademie.

Quanto tempo impieghi per preparare e comporre un singolo ritratto? E quanta improvvisazione, quanta libertà di movimento c’è in un tuo ritratto posato?
Non c’è un tempo predefinito, ogni ritratto ha i suoi tempi, possono volerci minuti o può essere il gioco di un istante. In genere cerco di individuare lo spazio all’interno del quale verrà fatto il ritratto, poi lascio che il soggetto si muova al suo interno e aspetto il momento di scattare; lo spazio, la griglia nel quale il ritratto viene concepito è molto importante perché determina l’atteggiamento e la postura della persona ritratta.

Royal Air Force College, Gran Bretagna

Credi che la fotografia oggi abbia un ruolo ben preciso nella creazione di un immaginario collettivo, oppure l’immaginario è solo una conseguenza di altre dinamiche meno legate alla dimensione estetica?
Credo che l’idea di fotografia che contribuisce all’immaginario collettivo, come è stata vissuta in passato, sia oramai impossibile. È cambiato tutto, vengono prodotte e visualizzate miliardi di immagini ogni giorno, potenzialmente possiamo vedere nell’arco di 24 ore più immagini di quante ne vedeva una persona nell’arco di una vita ai primi del novecento, questo fa sì che siano pochissime le immagini che persistono, io stesso non saprei citarti tre immagini che mi ricordo bene degli ultimi mesi, ma potrei citartene 500 che ricordo con approssimazione. Oramai le immagini concorrono a creare più immaginari collettivi o forse concorrono solamente a sgretolare questi immaginari. La sovraesposizione porta alla perdita di memoria e non al suo consolidamento.

Sempre a proposito di questo, credi che i cadetti che hai ritratto in giro per l’Europa si sentano europei? In generale, l’Europa appare sempre mancante di una vera identità comune. Sembra paradossale, ma il tratto che a me sembra accomunare tutti i cadetti non si trova tanto nel fatto che indossino tutti una divisa, quanto proprio nei loro volti, nelle loro espressioni. Cosa ne pensi?
I cadetti che ho fotografato sono i cittadini più europeisti che abbia mai incontrato. Per la società militare l’Europa è cosa fatta da un pezzo e la sua solidità non è in discussione, i cadetti che ho incontrato si sono formati con altri allievi di paesi diversi e hanno anche soggiornato per lunghi periodi in altre nazioni europee per formarsi: dalla loro esperienza nasce un sentimento europeo molto solido e stabile, è uno degli aspetti che ho trovato più interessanti nell’incontro con loro.

Royal Naval College, Olanda

Quando ho visto per la prima volta i tuoi cadetti, ho pensato ai tanti che hanno scelto una carriera militare perché non riuscivano a trovare un altro lavoro, o comunque per paura della disoccupazione. Perlomeno, questa è un’idea che sembra essere parte del senso comune. La mappa europea che hai disegnato con queste fotografie rivela qualcosa del genere? Hai avuto la possibilità di parlare con loro, di conoscere il perché di questa loro scelta?
Ho avuto modo di parlare con moltissimi di loro, il concetto di carriera militare come sicurezza economica è oramai datato e molto lontano dalla realtà (in più queste sono accademie equiparabili ad un percorso universitario completo). Le motivazioni sono molto diverse a seconda delle persone e dei Paesi, anche perché per alcuni la scelta della carriera militare non è vissuta come unica possibile e definitiva, dopo alcuni anni è possibile ritornare alla società civile con un bagaglio tecnico e di esperienze molto attuale. Immagina che molti ufficiali realizzano missioni in tutto il mondo. Per farti un esempio, in un’accademia ho incontrato un’allieva ufficiale che aveva come passione le contromisure elettroniche (con una formazione di ingegnere); dopo pochi anni e alcune missioni all’estero ha lasciato la carriera militare, è stata assunta come ingegnere elettronico in un’industria, ha acquistato con quello che aveva guadagnato, e senza aiuti, una casa galleggiante (una chiatta) sulla quale è andata a vivere col suo fidanzato. È anche militante in un’organizzazione per le pari opportunità.
Il tutto a 26 anni: mica male come indipendenza.

Al di là di tutto questo, immagino che entrare nei micromondi delle accademie militari possa essere stata comunque un’esperienza divertente. C’è qualche aneddoto che vuoi raccontarci?
Ho molti aneddoti che nascono dalla differenza di percezione di dettagli e fatti quotidiani. L’esperienza e la percezione di un civile è diversa da quelle dei militari. Un esempio: in alcuni spazi di alcune Accademie gli allievi ufficiali sono obbligati a correre o a camminare a passo di marcia, ne derivano delle situazioni in cui ti trovi a camminare con dieci persone accanto che procedono con te a passo di marcia per una giornata intera, con un effetto decisamente surreale.

Theresian Military Academy, Austria

La tua passata collaborazione con Alessandro Albert credo che nel corso degli anni abbia raggiunto un livello di simbiosi professionale. Pensi che da allora, da Seeuropeans, ma anche da Moscow project, sia cambiato il tuo approccio al ritratto? In particolare, quanto è diverso il lavoro sui cadetti da quello sulle spiagge d’Europa? Hai tratto delle considerazioni diverse sugli europei che hai fotografato?
La collaborazione con Alessandro è nata tantissimi anni fa, siamo amici da quando avevamo tredici anni, quindi ci conosciamo alla perfezione, le nostre foto nascono dalla percezione di due persone che hanno una sintonia totale ma idee spesso diverse… (è un’alchimia possibile, sì). Il mio approccio al ritratto credo non sia praticamente mai cambiato, sono cambiati i mezzi tecnici con cui realizzo le foto ma l’approccio è lo stesso, un’alchimia tra qualità della luce, griglia di inquadratura, presenza della persona, gestualità della persona e spazio al caso e all’imperfezione. Per quel che riguarda le considerazioni sugli europei, i cadetti avevano un sentimento e un’idea di appartenenza all’Europa che nella società civile non ho trovato.

Il libro Cadets è edito dalla casa editrice francese Éditions de La Martinière. Possiamo sperare di sfogliarlo presto anche in Italia?
Purtroppo in Italia non sono ancora riuscito a trovare un’editore, quindi l’unica edizione esistente è quella francese.

Royal Military Academy, Olanda

Gabriele Fanelli (1986) è laureato in filosofia. Si occupa di fotografia di scena e reportage. Ha partecipato alla mostra collettiva itinerante Through Waters (Pechino, Tianjin, Sarajevo). Nel 2014 ha frequentato il corso annuale di fotografia documentaria presso l’agenzia fotografica LUZ a Milano.

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