Vi evitavo già da prima.
Già da prima vivevo appartato, rasentavo i muri, cercavo gli angoli, mi tenevo a debita distanza dagli assembramenti, esperivo già buone pratiche di distanziamento sociale. Uscivo già poco la sera (compreso quando è festa), avevo già messo dei sacchi di sabbia vicino alla finestra, e stavo già senza parlare per intere settimane.
In qualche terra della memoria avevo già lasciato incustoditi i miei inni in disuso, accanto ad ex-fidanzate, parenti, vestiti in naftalina, appartamenti abbandonati.
I miei troppi 25 aprile: avevo già chiuso (la) bottega (dei souvenir), mi ero già reso irreperibile (e noi partigiani sappiamo come si fa a rendersi irreperibili), avevo già confinato la mia resistenza-liberazione in una irripetibilità storica.
Aprile era già da tempo il mese più crudele, perché genera lillà dalla terra morta e confonde memoria e desiderio.
E tuttavia anch’io aspetto. Di guarire dall’afasia della quarantena ermeneutica, di ricondurre fatti e pensieri ad un orizzonte abbracciabile ed agibile, ad una prospettiva, ad una nostalgia di futuro.