Camera ardente -1947, albenga, Im

Naufragi.

Da Albenga a Lampedusa.

Muninn
4 min readOct 15, 2013

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Fuori c’è l’allegra piazza di […] con le palme, le panchine, i chioschi, il sole, e persino quell’aria serena di festa portata qui dall’estate balneare. Ma appena si entra vien meno il fiato. Ci si aspetta uno spettacolo macabro. Vi è invece una cosa incredibilmente gentile: di qui la sua infernale potenza. Lungo le pareti dell’ampia sala hanno disposto tre specie di panche, ricoperte di bianchi teli. Due più brevi ai lati, una lunghissima di fronte. Su quella a destra giacciono tre donne e una bambina non ancora identificate, coperte fino al petto da un lenzuolo. Ma è sul rimanente che gli sguardi si fermano pazzescamente affascinati. […]

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Nel resto dell’articolo citato qui sopra non troverete le seguenti espressioni:tragedia annunciata, tragedia nella tragedia, rabbia e dolore, l’Europa si muova, Bossi-Fini, ministro Kyenge,reato di clandestinità. Non so se sia effettivamente cambiato qualcosa nel modo di fare giornalismo. So solo che Lampedusa per me resta un’espressione puramente geografica e trecentocinquanta è sempre la cifra che segue trecentoquarantanove. E’ solo colpa mia, che sono cinico? Una volta, tanto tempo fa, avevo provato a scrivere delle cose per un giornale locale: «Solo i fatti, solo ed esclusivamente i fatti, niente opinioni». Non che sia sbagliato certo, bisogna essere obbiettivi, avvicinarsi il più possibile alla verità dei fatti. E nessuno scrive più elzeviri, nessuno scrive più un articolo come quello sopra, sembra che bastino le parole tragedia e lutto, orrore e dolore per descrivere la morte. Chi potrebbe scrivere “pazzescamente affascinati”?

Dopo i numeri, le interviste a sindaco, pescatore, presidente e subacqueo, per non parlare del Papa, nessuno che racconti le storie di chi è rimasto sott’acqua o di chi è stato rispedito a casa. Si parla si parla si parla di quanto una legge abbia causato questa brutta faccenda. Gli eserciti di telecamere e microfoni lentamente si ritireranno, in altri luoghi ci sarà da combattere per un immagine, per una parola. E le onnipresenti “rabbia e dolore” come epitaffio. Le parole sono delicate, le parole si sciupano se vengono usate troppo.

L’articolo sopra è stato scritto da Dino Buzzati, quando nel ’47 una barca che trasportava i bambini di una colonia di Alberga affondò. Quarantaquattro sono le vittime, tutte tra i tre e i dieci anni più tre maestre. Un altro naufragio. Buzzati si mise seduto dentro al grande salone della croce bianca, unico vivo, a battere a macchina. E non scrisse, cantò. Cantò come un menestrello dei tempi antichi ma nella lingua dei giornalisti. Un cantore che narrava le cose distanti e lontane ma che con la sua melodia componeva immagini struggenti. Lui era là, vedeva e noi vediamo ancora e vedremo sempre, sentiamo l’odore dell’olio solare, il mare il sole e la mostruosa tranquillità della camera ardente. I nomi dei bambini, le madri che arrivano in treno da Milano. Tutto quello che deve succedere tra una madre e il suo figlio che non è più.

Gli articoli di cronaca nera sono stati raccolti da Lorenzo Viganò in La “nera” di Dino Buzzati (Mondadori, pag. 752, euro 19). Il primo volume, Crimini e Misteriraccoglie omicidi e crimini comuni (vi consiglio l’ottima recensione di Polimena su Trecuggine). Il secondo invece comprende tutto quello che sfugge al controllo umano, le peggiori tragedie a cui Buzzati ha assistito nella sua vita di giornalista e si chiama Incubi. I bambini di Alberga, il disastro aereo di Superga, dei Parà morti misteriosamente uno dopo l’altro, la morte di Ascari a Monza, treni deragliati, incidenti aerei e navali, il disastro del Vajont. Sempre con lo stesso misto di cinismo e sensibilità il giornalista affronta la notizia. La morte, la morte vera, non quella che aleggia sempre nei suoi racconti ma che è pur sempre un personaggio. E si sente, ogni volta, il dolore. Non lo si legge solamente. Più di una volta mi sono trovato a piangere per persone morte decenni fa, persone lontane, sconosciute di cui non dovrebbe importarmi niente.

Mentre qui in questo tempo si discute ancora di cosa si sarebbe dovuto fare, di cosa ha sbagliato chi, di soldi, di colpe di vergogne la voce di Buzzati arriva da un altro mondo, spalanca l’abisso con delicatezza e ci dice: «Ma non capite che tutto questo affanno non serve a nulla?».

Soprattutto terribile mi sembrò un padre. Guidato come un automa da un infermiere ritrovò quasi subito il suo bimbo. Era un signore sui trent’anni vestito correttamente di grigio, dal volto nobile e in certo senso avventuroso. Veniva da solo. L’infermiere presto lo lasciò richiamato da altre scene miserande. E lui non disse una parola, non ebbe un sospiro o una lagrima, lo vidi anzi poco a poco diventare di pietra. Fissava con avida intensità il figlio nato inutilmente da lui e mi parve di leggere nella sua faccia un rimorso cupo, senza rimedio, quasi che tra l’uomo e il bimbo ci fosse stato un lungo e meschino malinteso.

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