Solitudini tropicali.

La Birmania di George Orwell.

Muninn
Libri da ricordare.

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Il destino delle opere minori è di certo quello dell’oblio. Relegate a un misero paragrafo in coda alla biografia dell’autore nei manuali; giustamente evitate dagli editori, per cui il rischio più o meno uguale a quello di un esordiente; beatamente ignorate nel migliore dei casi dalla comunità lettrice. Fortunatamente il sipario di foschia a volte si apre e consente di sbirciare aldilà, alla ricerca di qualche territorio inesplorato. Quando parliamo di grandi autori, scrittori che hanno fatto la storia della letteratura mondiale, citati e abusati fino all’inverosimile, perché dovremmo essere così schizzinosi? Perché mai un’opera, considerata minore rispetto al capolavoro, non dovrebbe essere comunque una buona lettura, maggiore rispetto alle squallide paludi della letteratura mediocre? (certo, a volte capita anche di beccare ciofeche inimmaginabili, ma non è il nostro caso) Questo il caso di George Orwell, il mitologico autore di 1984 e La fattoria degli animali.

Passeggiando in libreria, è possibile adocchiare un libro nuovo fiammante, con quelle belle copertine Mondadori, fascia bianca in basso, titolo e nome dell’autore in piccolo. Ed proprio lì che l’adocchio è tirato: “Ah, ha scritto anche un altro libro, Orwell?” È il normale pensiero, o almeno il mio. Il libro si chiamaGiorni in Birmania (Mondadori, euro 10, pag. 331, traduzione Giovanna Caracciolo).

Il titolo accende la speranza di un Orwell più quotidiano, dove la sua acutezza e capacità espressiva siano al servizio della vita di tutti i giorni e non della satira politica o di un allucinante profezia distopica. Un Orwell più umano, che racconti la sua vita nelle colonie inglesi in Indocina, dove aveva vissuto. L’autore forse ci tradisce, perché invece scrive un romanzo, con tutte le implicazioni che la parola romance si porta dietro. E’ infatti la storia di John Flory: angloindiano mercante di legnami, outsider della piccola comunità di dominatori inglesi di un piccolo centro nel nord della Birmania, amico del dottore indiano Veraswami e innamorato di una giovane donna inglese appena arrivata da Parigi.

Il paesaggio è tropicale, caldo, caldissimo, afoso, fatto di camicie che si appiccicano, dermatiti tropicali, servi che sventolano ventagli e ghiaccio che non arriva a sera, con molto disappunto dei membri del circolo inglese. La Birmania è un paese fangoso, inadatto alla vita di un europeo. I pochi sventurati angloindiani riescono a tirare avanti solo grazie all’alcool e al primitivo dominio che esercitano sulle popolazioni locali. Il disprezzo profondo per gli orientali è ancora più forte in questa lontana stazione della periferia dell’Impero e il fulgido dominio civilizzatore dell’Inghilterra è smontato dal già maturo spirito critico dell’autore. Violenti, ignoranti e di una mediocrità a malapena tollerabile, i membri della sahiberia, la società civile, sono così ottusi da non capire il mondo che li circonda, intessuto di meschini tradimenti, chiusi nell’inviolabilità del proprio circolo, vietato ai nativi. Leggendo questo libro dopo gli altri due grandi racconti politici di Orwell la tentazione è di fare anche di questo romanzo un manifesto: questa volta non sono sotto esame il fallimento della rivoluzione russa o i pericoli di del totalitarismo, ma il fulgido Impero Britannico, al massimo del suo ipocrita splendore, che comincia a scricchiolare. Ma per nostra fortuna non è tutto qui.

Passioni e intrighi si intrecciano alla continua e penosa ricerca della felicità di Flory. Il paese dove vive può anche piacergli, ma è nulla senza qualcuno con cui condividerlo: non può farlo coi suoi compatrioti, boriosi e presuntuosi; non può farlo coi nativi, per cui l’uomo bianco resterà sempre un lontanissimo e incomprensibile alieno; neppure l’onesto dottore può capirlo. La speranza si mostra per un momento quando salva la giovanissima Elizabeth da un innocuo bufalo: lei potrebbe portare sollievo nell’invincibile solitudine delle calde giornate birmane, il matrimonio sarebbe per tutti una scelta conveniente. Una serie di romanzeschi colpi di scena non basteranno ad allontanare dal lettore la certezza che il protagonista sia profondamente solo, diviso tra due mondi che non lo capiscono e che non possono violare le convenzioni che li tengono a galla.

Il titolo originale di 1984 era L’ultimo uomo in Europa, l’ultimo essere umano in una società che distrugge gli individui fino all’anima, rimuove scientificamente la speranza e la felicità. Ma che non è molto differente nei suoi meccanismi profondi, invidie e mediocri ipocrisie, dalla nostra società civile. Disprezzo, avidità, ignoranza, che prima di arrivare dalle Ideologie, dallo Stato, da quelle cose iperurainche lassù in alto, arrivano dai mediocri cuori di mediocri persone, che difficilmente possiamo chiamare esseri umani. L’opera minore illumina il capolavoro e ci svela l’abissale solitudine di un uomo che si sente differente e di un autore che non trova il suo posto, in nessuna società, in nessun tempo e luogo.

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