Vita di un uomo semplice.

Giobbe raccontato da Joseph Roth.

Muninn
Libri da ricordare.

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C‘era una volta, o forse non c’era, una cosa che non ha neppure un nome preciso. Prima che il mondo esplodesse nella guerra e tutto venisse disintegrato, lasciando pezzetti ovunque, esisteva. O forse no, e ha cominciato a vivere solo nella fantasia e nella nostalgia di chi vi era nato, nei libri e nei quadri. Non potresti chiamarla cultura, regione geografica, stato, neppure nazione, perché era fatta di russi, di ucraini di polacchi di tedeschi di tartari di bielorussi di cattolici e di ortodossi di protestanti di ricchi di poveri di contadini e di conti di sudditi di imperi e, soprattutto, di ebrei. Non potresti neppure guardarla fissa per un momento, perché era in continuo movimento, un vortice impossibile, che ha preso coscienza di sé nel preciso istante in cui stava morendo. Al centro di questa cosa c’era la Galizia, e al centro della Galizia c’era Zuchnow, dove è nato Joseph Roth, l’autore di Giobbe, romanzo di un uomo semplice (Adelphi, pp. 195, euro 9, traduzione Laura Terreni).
E lì nasce anche il nostro protagonista:

Molti anni fa viveva a Zuchnow un uomo che si chiamava Mendel Singer. Era devoto, timorato di Dio e simile agli altri, un comunissimo ebreo. Esercitava la semplice professione del maestro. Nella sua casa, che consisteva tutta in un ampia cucina, faceva conoscere la bibbia ai bambini. Insegnava con onesto zelo e senza vistosi successi. Migliaia e migliaia prima di lui avevano vissuto e insegnato nello stesso modo.

Questo invece è l’inizio del libro di Giobbe, quello originale:

Viveva nella terra di Us un uomo chiamato Giobbe, integro e retto, timorato di Dio e lontano dal male. Gli erano nati sette figli e tre figlie; possedeva settemila pecore e tremila cammelli, cinquecento paia di buoi e cinquecento asine, e una servitù molto numerosa. Quest’uomo era il più grande fra tutti i figli d’Oriente.

Questo dovrebbe farvi capire, in che modo sottile, obliquo, Roth utilizzi la lingua, le parole e le immagini della tradizione ebraica: Giobbe non era un semplice, era il migliore. Mendel Singer invece è un uomo semplice e quasi meschino, semplice è la sua vita e semplici le sventure che gli capitano che, per quanto terribili, sono perfettamente inserite nel normale flusso delle cose, non c’è una forza superiore che sembra congiurare contro di lui: Mendel Singer è solo un numero nella percentuale. In tempi burrascosi, la normalità è sfortunata. Roth dosa ogni singolo particolare del suo romanzo per mantenerlo su un precario equilibrio e invece di creare un’interpretazione comprensibile continua a mescolare le carte, facendo oscillare la nostra attenzione di lettori da un particolare all’altro. Non si può, e non si deve, capire da quale peccato derivino le punizioni divine: forse sua figlia è entrata in una chiesa cristiana per sbaglio, forse la moglie è stata invidiosa, avida e insoddisfatta, forse lui ha picchiato i suoi figli. Per quanto si cerchi, tra le piccole e miserevoli azioni, tentazioni e peccati, nulla giustifica agli occhi di Mendel, e dei nostri, la punizione divina. Le loro vite erano già abbastanza miserevoli, senza che Iddio li punisse con la deformità di Menuchim, il loro ultimo figlio.
Il libro racconta della vita di un ebreo qualsiasi, vissuto nell’Europa orientale e poi nell’America dei primi anni del novecento. Non vi aspettate grandi riflessioni spirituali sulla natura del destino, ma piuttosto un grandissimo spettacolo teatrale, colorato e folle come i dipinti di Chagall, in cui i colori puri sfumano dal chiaro allo scuro, con la forza primordiale delle fiabe o della Bibbia e la profondità psicologica di un capace scrittore. In questo romanzo i bambini sono furbi come volpi e forti come orsi, le ragazze hanno gli occhi profondi come la notte, le labbra rosse e sono agili come gazzelle, le stelle parlano e i soldati non sono fatti di carne ma di odore di sudore umano, equino e profumo di sella di cuoio bulgaro. I pavimenti puliti delle case sono di colore giallo, come sole fuso, il mare è verde e la neve bianca, le fiamme delle candele danzano assieme agli ebrei in preghiera, che ondeggiano al ritmo dei loro salmi nella lingua antica dai suoni spezzati. Non c’è colpa in loro, non c’è colpa in nessuno, non c’è nella moglie Deborah, che ama tutti i suoi figli, non c’è nella figlia Shemariah, che ama tutti gli uomini, persino i soldati. Non c’è nel piccolo Menuchim, che dondola nella sua culla sospesa sopra ai bambini che ascoltano Mendel. Non c’è colpa nella guerra, non c’è colpa nella morte. C’è solo vita.

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