Sadegh Hedayat — La civetta cieca — #LNP4

Salvatore Greco
LibriNonPolacchi
Published in
3 min readApr 10, 2020

Quando ho saputo che Carbonio editore avrebbe pubblicato un grande classico persiano contemporaneo, ho messo in ordine un paio di pensieri.

Il primo è che conosco professionalmente Carbonio da più di un anno ormai e che le loro scelte editoriali mi incuriosiscono dal primo giorno perché fatte seguendo un filo difficile da definire ma che ha sempre chiaro un orizzonte di qualità in mente.

Il secondo è che le mie frequentazioni con la letteratura persiana si fermano alle splendide quartine di Khayyam, e non mi sembra una cosa accettabile non sapere cosa quella straordinaria cultura abbia prodotto negli ultimi novecento anni circa.

Il terzo è che La civetta cieca era già uscito anni fa, ma in una traduzione passata dal francese (se non erro). Carbonio invece ha commissionato ad Anna Vanzan una traduzione direttamente dal persiano. Per me che frequento le cose polacche, e che ho visto traduzioni improbabili passate da altre lingue occidentali, per me questo è un tema sensibile e ho apprezzato moltissimo la cosa.

Poi, finalmente, sono arrivato all’opera. A La civetta cieca. Del suo autore, Sadeq Hedayat, potrete leggere benissimo nell’introduzione che la stessa Vanzan ha scritto o in varie schede che internet ci mette a disposizione. Nato a Teheran nel 1903 e morto a Parigi nel 1951, Hedayat non ha fatto in tempo a vedere la rivoluzione khomeinista, ma è facile credere che l’avrebbe detestata dal profondo del cuore. Ateo, vegetariano, innamorato dell’occidente e della civiltà indiana, grande conoscitore e divulgatore della cultura persiana classica, aveva tutti i crismi per essere inviso alla teocrazia islamica iraniana di oggi.

Difficile dare una trama di La civetta cieca, perché più che una storia vera e propria è un flusso tremante di immagini che sembrano lo spleen delirante di un oppiomane, e del resto l’oppio è un elemento dominante in queste pagine. Come nella miniatura che il protagonista disegna ossessivamente su dei portapenne, le immagini di questo libro si ripetono confondendosi in una tempesta di odori e di colori, a volte meravigliosi, altre volte disgustosi. I personaggi finiscono per somigliarsi tutti, ripetersi sotto altri volti, e solo il protagonista sembra non accorgersene. C’è un vecchio irridente, il macellaio di fronte, la moglie del protagonista che lui chiama Sgualdrina non riuscendo a dividere nel suo cuore il disprezzo e l’attrazione per questa donna che ha sposato dopo essere stato allevato dalla madre di lei.

Non è una lettura semplice se non si rinuncia consapevolmente a voler trovare le aristoteliche spazio, tempo e azione. Non c’è nulla di lineare, nulla di coerente, forse non c’è proprio nulla e basta. Restano gli odori, persistenti e presenti ovunque, i colori, le immagini scabrose e a volte disgustose, il rapporto ambivalente con la carne e la sessualità, un conflitto interiore che dimostra quanto la traduttrice racconta nell’introduzione: Hadayat parla la stessa lingua letteraria di Dostoevskij o Joyce.

Veramente consigliato a chi voglia gettare lo sguardo oltre i confini consueti della letteratura occidentale, ma allo stesso tempo leggendo un autore poco tradizionale e irriverente, se non anche dissacrante, verso la sua cultura di provenienza.

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