Cherfully live (Abbie Stapleton): “If you know my story you will be proud of me, as I am proud of you!”

Miriam Ferraro
Life Beyond The Feed
11 min readJun 14, 2024

di Talita Martini

La fondatrice di Cheerfully Live si chiama Abbie Stapleton ed è una ragazza di 27 anni. Vive a St. Neots nella contea di Cambridgeshire, in Inghilterra. È madre di una bambina di nome Evelyn che è venuta alla luce dopo aver avuto tre aborti spontanei. Inoltre, è sposata da cinque anni.

Le malattie di cui soffre e parla sui social sono: endometriosi, fibromialgia, IC, POTS e sindrome di Fowler.

Fin da giovane Abbie ha sofferto di endometriosi. Tuttavia, i dottori non credevano che potesse soffrire di una grave patologia vista l’età. Abbie ha dovuto aspettare ben dieci anni prima di avere la prima diagnosi di endometriosi. Il dolore che le arrecava tale condizione era talmente forte che l’ha costretta ad abbandonare il suo lavoro di infermiera. Dopo un intervento di escissione, nel 2017 ha creato un blog in cui condivide la sua vita e, successivamente, aprì un profilo Instagram chiamato Cheerfully Live, dove ha iniziato a fare sempre più divulgazione su queste malattie e le loro complicazioni. Riceverà la prima diagnosi di endometriosi e di fibromialgia nel 2019, momento in cui Abbie si sentirà finalmente riconosciuta ed inizierà a raccontare la sua storia.

Storytelling

Il suo stile di narrazione è rimasto invariato nel tempo, utilizzando fotografie di sé stessa in alta qualità, curate esteticamente, con colori tenui e chiari. Infatti, la sua presenza fisica nei post è una costante: il suo corpo, il suo volto, i suoi capelli e la sua pelle sempre in primo piano. A volte mostra nudità, per evidenziare i segni che le lasciano la sua malattia e le operazioni che subisce, ma sempre con fotografie ben studiate, curate nei minimi dettagli, la luce è sempre perfetta e gradevole da osservare.

Nei suoi post si vedono scene della sua vita, come delle vere e proprie messe in scena, studiate nei minimi dettagli, puntando sull’estetica come costante: dove la bellezza, nonostante la sofferenza causata dalle sue malattie, incarna il valore del volersi bene. Care è proprio la parola chiave di Abbie, promuovendo questa “cura” in ogni contenuto: dai propri dolori al proprio sonno, dalla propria famiglia ai followers. Abbie sponzorizza questo stile di vita come se fosse unico e indispensabile, come se fosse un dovere, attraverso consigli e informazioni. Incarna un vero e proprio modello di vita.

Sono ben studiate anche le parole che accompagnano i suoi contenuti video fotografici, parole che cercano sempre di suscitare emozioni forti. Parla molto del dolore e della sofferenza, di come lei cerca e riesce sempre ad essere grata e felice nonostante tutto, di come sia indispensabile concentrarsi sulle questioni giuste e usare i prodotti che rispecchiano l’amore per se stessi e per la vita. Di sfondo a tutto questo, la sua vita matrimoniale, la sua famiglia e la sua fede religiosa.

I contenuti di Abbie sono molto orientati su divulgazione e sensibilizzazione verso tematiche come le malattie croniche, l’aborto spontaneo, la diagnosi tardiva, la gestione del dolore cronico, convivenza con l’endometriosi ed, infine, il sesso doloroso. Nel parlare del suo percorso di diagnosi, si impegna molto a condividere informazioni e sensibilizzare sul tema dell’endometriosi, oltre che ad offrire soluzioni e supporto emotivo. Aderisce a campagne di sensibilizzazione online e condivide enti di beneficenza e organizzazioni di supporto, sponsorizzando canali che si occupano del tema come ad esempio: (https://www.instagram.com/endometrioluce/)

Nei suoi contenuti ci sono dei temi ricorrenti: l’accesso alle cure, il difficile iter diagnostico, le problematiche degli interventi chirurgici, la sintomatologia e la percezione sociale del dolore cronico, in particolare quello legato all’endometriosi. Parla spesso di una minimizzazione e della noncuranza da parte dei medici rispetto alla gravità e alla serietà dei sintomi presenti in questa malattia, che sono molti e toccano tanti aspetti della vita intima e sociale di chi ne soffre. Un’ulteriore tematica molto presente nel suo canale è il body positive, questo argomento lo tocca molto spesso in prima persona, parlando di come ha imparato a volersi bene così com’è e di come sia importante accettare tutti i tipi di corpi.

Commercializzazione e mercificazione

Subito dopo la diagnosi di endometriosi, Abbie iniziò ad utilizzare le piattaforme per trasformare la storia in attività di marketing online, rendendola la sua entrata principale. Attiva, quindi, il dominio del suo sito web https://cheerfullylive.com/ collegandolo al suo blog, iniziando così una nuova fase di sponsorizzazione di vari brand. Le sponsorizzate sono sempre visibili e dichiarate. La percentuale di contenuti con pubblicità si è modulata e ridimensionata nel tempo, ma in passato avevano una frequenza di circa tre post su cinque.

Pubblicizza beni come gioielli, creme, oli essenziali, integratori, ma anche servizi, come viaggi, hotel, abbonamenti di community di supporto, accessori per il benessere e la cura di sé stessi. Le sue sponsorizzazioni, apparentemente amatoriali, in realtà risultano ben studiate e contestualizzate al suo profilo social, al suo aspetto o alla sua malattia, collegando il prodotto/servizio ad un suo bisogno di prendersi cura di sé. Infatti, una collaborazione molto significativa collegata alla sua malattia è un abbonamento a una community supportiva di donne che soffrono di malattie croniche, di cui lei fa parte ed ha usufruito in un periodo difficile della sua vita.

Adattamento alle Affordances delle piattaforme

La divulgazione spesso è accurata e sincera, ma sembra mancare di realtà: è come se leggessimo delle storie, delle messe in scena con degli attori, in cui la continua narrativa spesso ci manipola. Infatti, iniziamo a pensare che ci sia un modo univoco di vivere quella malattia o di affrontare quel dolore. La divulgazione diventa quasi una “moralizzazione”, creando dei modelli di “perfetti attivisti” o modelli di “perfette reazioni” o ancora “modelli di perfette persone che soffrono di endometriosi” come nel caso analizzato. La narrazione di Abbie è ridotta al mostrare solo quello che vuole mostrare, per apparire esattamente quello che decide di apparire, mette poco in luce la profondità dei processi personali che il dolore può causare, come la rabbia, o emozioni in contrasto con l’aspettativa della sua audience, della piattaforma e della società: a volte questo voler raccontare a tutti i costi una storia ha l’effetto contrario, ovvero svuotare di senso l’esperienza.

Narrazione e storytelling sono due pratiche differenti. Messa all’interno dei media con delle logiche commerciali, la narrazione perde completamente la sua funzione, mentre lo storytelling centra pienamente i suoi obiettivi:

I racconti rendono possibile l’emergere di una comunità. Lo storytelling, di contro, da forma solo a una community, che è la versione mercificata della comunità. La community è composta da consumatori (Byung-Chul Hal 2024).

Il linguaggio e il messaggio sono codificati e riempiti con ciò che è richiesto, per diventare virali, per suscitare più interesse. Lo storytelling e la divulgazione sono la vera centralità e vero oggetto di contrattazione. Ti offro divulgazione con mia cruda e sincera esperienza attraverso la mercificazione del mio stesso corpo e del mio stesso dolore, in cambio del tuo like e del tuo click to buy di prodotto. Devi fare ciò per te stesso, per stare meglio, oppure per dimostrare il tuo supporto all’influencer e alla causa. Le linee guida per come dare questo “supporto” le fanno le affordances della piattaforma, le quali guidano il ventaglio di possibili azioni da parte degli utenti (like, commenti, abbonamenti, compra ora, condividi).

Il processo di mediatizzazione all’interno delle industrie culturali

Dal momento in cui è stato possibile diventare produttori e non solo fruitori di contenuti, e dal momento che i social sono diventati onnipresenti nel nostro quotidiano, abbiamo iniziato a condividere sulle piattaforme le nostre esperienze e le nostre idee. Questa è, sostanzialmente, una pratica molto democratica che, cercando di abbattere le barriere sociali e le differenze culturali, crea uno spazio in cui ognuno di noi può aggiungere la propria voce al coro del dibattito pubblico. La pluralità di queste voci ha permesso di ridiscutere su concetti come identità, dolore, sensibilità, sessualità, libertà, rispetto, normalità. Il discorso si è esteso fino a permeare nella società stessa e plasmarla, a volte modificandone il funzionamento, attraverso una produzione più etica, un’organizzazione degli spazi più inclusivi, un utilizzo di un linguaggio più rispettoso. Ormai i media sono incorporati nelle istituzioni poiché, allargando le piattaforme in cui il dibattito pubblico si esprime (raggiungendo un’audience maggiore), arriva di fatto alle istituzioni e le “obbliga” ad essere prese in considerazione.

Qual è il ruolo degli influ-activist sulle contested illnesses nel processo di piattaformizzazione?

La divulgazione contrasta la disinformazione. In particolare, sui social network si assiste ad una divulgazione da parte di persone che vivono in prima persona il problema di queste malattie contestate. Utilizzando le logiche delle piattaforme, dove i creators adattano il proprio linguaggio alle specifiche caratteristiche di queste ultime, le informazioni sono sempre disponibili e creano la certezza negli utenti che i loro influencer preferiti siano sempre disponibili, che siano lì per loro, che rispondano e che ci sia reciprocità. Aspetti che in ambito sanitario sono esattamente opposti: i nostri medici hanno tempistiche contingentate, non ci rispondono quasi mai, raramente hanno le nostre stesse difficoltà e non possono entrare in empatia con noi, mentre nei social il tempo è fluido. Inoltre, si accentua la parte empatica, gli utenti trovano e danno sostegno reciproco, perché hanno i nostri stessi problemi ed hanno, quindi, il diritto di poterne parlare.

Un aspetto che per me è risultato molto contrastante è che alcuni influencer che fanno attivismo sulle contested illnesses portano avanti delle narrazioni senza interrogarsi sulle fondamenta culturali da cui queste situazioni hanno preso forma. Per quello che ho potuto osservare da questa ricerca, nei contenuti di Abbie non c’è nessun dibattito profondo sul perché le hanno fatto una diagnosi così tardiva, o sul perché non venisse presa in considerazione la sua sofferenza, o perché le strutture sanitarie si stanno informando solo ora su tematiche che invece affliggono le donne da decenni. La parola patriarcato è un tabù e il femminismo sembra non esistere, non osserva mai la sua esperienza attraverso la lente del femminismo. Abbie sceglie di non portare avanti il dibattito su queste tematiche, ma si ferma al racconto di quello che è successo aggiungendo i giusti hashtag, racconti sempre a posteriori, calmi, con parole dolci, incoraggianti. Anche se, per esempio, chiede di essere ascoltata da un governo per avere più riconoscimento delle malattie femminili, questa richiesta è pacata, è calma, non c’è rabbia, non c’è aggressività, non ci sono parole che potrebbero suscitare conflittualità, polemica, come “femminismo” “cultura patriarcale”, “disuguaglianza di genere”, insomma, non c’è un linguaggio politicizzato.

Ma “il personale è politico”, ed ognuno di noi è portatore di plurime identità, come razza o orientamento sessuale, ed ignorare queste intersezioni è ignorare il modo in cui colonialismo e capitalismo hanno codificato tutte le costruzioni sociali, ovvero i rapporti di potere che regolano la nostra società (Jodi Dean 1996).

E come si può promuovere un cambiamento efficace senza partire dal fatto che viviamo in una società che promuove modelli e pratiche che continuano a generare disuguaglianze e non pari opportunità, creando pregiudizi, categorie e odio tra le persone, una società in cui i rapporti di potere sono alla base di tutto?

Alcuni profili di creators impegnati in queste tematiche, invece, costruiscono tutta la loro narrazione intorno a questa analisi consapevole in cui viene messa in evidenza un’oppressione e una “invisibilizzazione” di certe categorie di persone considerate di serie B e, di conseguenza, viene messa in luce l’esistenza di una struttura sociale e le sue relative pratiche culturali, ancora impregnate di disuguaglianze sociali e di genere. Ed è proprio su questo piano di analisi che si appoggia poi tutta la loro narrativa, contrapponendosi a queste ingiustizie, all’ oppressione culturale che vuole continuare a tacere minoranze e a “invisiblizzare” la diversità, possibilmente estirpandole.

L’ impatto sul discorso pubblico

Gli influ-activist delle contested illnesses sono maggiormente persone di sesso femminile e la loro audience è per la maggior parte di sesso femminile. A volte cercano di portare il discorso pubblico su un piano politico per fare in modo che vi sia un cambiamento tangibile e riconosciuto a livello istituzionale e culturale, ma spesso questo non succede in linea diretta, bensì si fermano a una condivisione lasciando che il loro messaggio o contenuto, diventi un qualcosa che altri possono utilizzare per le loro “battaglie sociali”. In ogni caso, credo che il voler cambiare il discorso pubblico sia un obiettivo comune, anche se viene portato avanti in modi diversi. Nel caso di Abbie, per esempio, anche se lei non fa emergere la problematizzazione del rapporto tra diagnosi tardiva e cultura patriarcale, è anche vero che, ad oggi, sono le istituzioni a dettare le linee guida, sia in termini di regole che di pratiche culturali. Proprio queste linee guida hanno fatto sì che Abbie abbia impiegato ben dieci anni per ricevere la giusta diagnosi per la sua malattia. Credo che ogni sforzo di Abbie nel parlarne sia rivolto a far sì che le prossime generazioni potranno ricevere una diagnosi in tempi inferiori e che trovino professionisti più preparati, che ascolteranno e daranno loro più credito. Perciò, per rendere questo tipo di attivismo efficace, gli influ-activist partono da una narrazione molto soggettiva e intima del proprio dolore, ma anche molto performativa; cercando di raggiungere un buon livello di credibilità attraverso la propria autenticità, suscitando empatia e compassione per questo.

Alcune considerazioni

I rischi di questa convergenza di interessi sono diversi e su più livelli, ne osserviamo due:

  1. La coincidenza tra divulgazione, attivismo e autoimprenditorialità può agganciare queste battaglie a pratiche di consumo e realizzazione del sé attraverso il consumismo, perpetuando così processi di riconoscimento sociale che diventano ambigui.
  2. In secondo luogo, spesso non ci sono degli obiettivi allineati, ogni community chiede una cosa partendo da un assunto diverso, non producendo un dibattito che si estende alla politica ma, al contrario, riproducendo gli stessi modelli che cercano di sradicare e che sono presenti nella società, come per esempio usare il proprio corpo per fare business o rendere i propri contenuti sufficientemente fruibili per raggiungere un successo individuale.

Ma ci sono ulteriori questioni da considerare:

  1. Perché non si dovrebbero utilizzare tutti gli strumenti che abbiamo per raggiungere i nostri obiettivi, siano essi in termini di attivismo, ma soprattutto obiettivi di realizzazione personale e successo economico? Perché un influencer che soffre di colite ulcerosa, oppure che ha l’endometriosi non dovrebbe avere il diritto di lucrare sulla sua stessa malattia, ovvero sul proprio corpo, e farlo diventare uno strumento? Le lavoratrici del sesso lo fanno e lottano anch’esse per l’ottenimento di dignità e riconoscimento di diritti, considerando il loro un lavoro a tutti gli effetti. Un lavoro in cui viene mercificato il proprio corpo.
  2. Ma chi è un “vero attivista”? Perché fare attivismo deve essere considerato un atto di volontariato, gratuito, libero da logiche di mercato? Infatti, l’attivismo è interconnesso con così tanti strati di complessità: personali, emotivi, sociali, culturali, politici, religiosi, commerciali. Perciò, come si può pretendere che non vi siano logiche economiche sottostanti?

Infatti, non considero del tutto negativa questa mercificazione del proprio corpo e della propria sofferenza con fini sia di attivismo che di monetizzazione, non ne faccio una questione moralista o di principio: prima di tutto perché alla fine avviene una maggiore informazione, c’è più divulgazione, è più fruibile, più accurata e tutto questo è davvero importante e non scontato, e grazie alle tecnologie moderne può arrivare veramente a tutti: un sapere che viene veicolato in modo gratuito e libero è democrazia, è libertà. Vengono alla luce più modelli di pensiero in cui riconoscersi.

Bibliografia

Dean, J. (1996). Solidarity of strangers: Feminism after identity politics. Univ of California Press.

Han, B. C. (2024). The Crisis of Narration. John Wiley & Sons.

Sitografia

https://cheerfullylive.com/

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Miriam Ferraro
Life Beyond The Feed

Ph.D Student at @Unife. I deal with Sociology of Health, Epistemic Injustice and Contested Illnesses.