Andy e i suoi amici

Warhol e il circolo di artisti della Factory sono in mostra a Bologna a Palazzo Albergati

Published in
7 min readDec 20, 2018

--

A scuola ti insegnano che la genialità — una espressione almeno della sua genialità — di Andy Warhol fu quella di trasformare la cultura di massa in arte. La cultura di massa è fatta di oggetti culturali (nel senso che ne costituiscono il lessico) popolari. Sono cose che tutti conoscono: la lattina di conserva, il volto di Marilyn ripetuto su tutte le riviste, John Wayne che spara vestito da cowboy, la sedia elettrica. È quello che altrimenti si definisce “l’immaginario collettivo”: un archivio visivo che viene installato in tutte le menti appartenenti a una cultura specifica durante la vita degli esseri che la compongono.

Warhol notò questa ripetitività delle immagini e, per certi versi, fece prima il lavoro del photo-editor e poi quello dell’artista: ne selezionò alcune che ben rappresentassero un personaggio, il suo spirito e l’idea che ne aveva il pubblico/popolo e le rielaborò usando diverse tecniche. In questo senso la sua fu un’operazione culturale: generata ed elaborata all’interno di una specifica cultura, consistette nel selezionare degli archetipi e nel rielaborarli. Non creava dal nulla — ammesso che si possa creare qualcosa dal nulla — ma rendeva artistico ciò che non lo era per definizione.

L’arte ha questa caratteristica: concentra in un unico punto moltissimi significati. Se è buona arte ha diversi livelli di lettura e parla a diverse persone. Nel caso specifico, il pubblico della Pop Art è il più vasto che un artista possa sperare di avere: tutti la possono riconoscere, anche se magari non la capiscono. Riconoscono insomma i soggetti: le labbra di Marylin o il volto di Mao.

Warhol fece un’operazione artistica: elevare l’immagine popolare al livello di opera d’arte.

In osservanza della sua stessa origine (la ripetibilità dell’oggetto popolare) anche la Pop Art è raccontata da opere in molteplici copie, come le immagini da cui origina appunto. Non tutta, intendiamoci: ci sono moltissimi pezzi unici (Basquiat, David Salle, Julian Schnabel) ma ci sono altri che giocano proprio sul confine che separa la ripetibilità industriale (e quindi il suo valore commerciale) e l’esclusività del pezzo unico, come Jeff Koons o Keith Haring.

C’è insomma un gioco molto divertito dell’artista che rielabora cioè che non ha un valore intrinseco come le immagini — oggi diffuse ancora più massicciamente che ai tempi di Warhol — rendendolo arte.

Ma c’è anche un altro passaggio concettuale che identifica un’opera come opera d’arte: l’essere isolata su una parete bianca. Non saprei definirlo diversamente. L’esperienza dell’arte contemporanea — anche se ormai Warhol è moderno — richiede l’isolamento che aiuta la contemplazione. La parete del museo o della galleria non è solo un necessario supporto ma è parte dell’opera: è un’ulteriore cornice che rappresenta lo spazio e il respiro di cui quell’opera necessita per separarsi concettualmente e visivamente dal resto.

Nell’esposizione di Palazzo Albergati manca tutto questo, sin dalla prima sala dove le pareti sono rivestite da una carta da parati con mattoni a rilievo, per giunta colorati di argento. Immagino si tratti di un’evocazione della Factory warholiana e del suo aspetto industriale. Ma a che pro se poi alle pareti ci sono montati quadri uno accostato all’altro fino a disturbarsi a vicenda? Le altre sale sono poi di piccole dimensioni e altrettanto affollate: due opere gigantesche di Schnabel sono sistemate in una sala grande come un soggiorno di medie dimensioni e te le immagini quasi curvarsi per starci dentro. Quelli sono gli spazi che i curatori avevano a disposizione, non ne dubito, ma quelle opere non ci stavano dentro. Non respiravano. Ci sarebbero state forse se avessero occupato una parete a testa, in modo da non avere niente attorno. E invece.

L’ultima cosa che pensavo guardando quelle opere non c’entrava con l’esposizione stessa ma, più in generale, con la Pop Art: pensavo al problema della qualità di quelle opere.

La questione potrebbe articolarsi in due modi: una qualità intrinseca e una estrinseca. Nel primo caso ne parlo in termini di qualità pittorica o artistica, nel secondo scomodo invece la sua ripetibilità e quindi il suo valore percepito. Mentre guardavo Marilyn pensavo a quante Marilyn ci sono in giro. Il trattamento dell’immagine stessa — il suo valore artistico — è innegabile ed è condensato nel tratto warholiano. Quando vediamo una Marilyn fatta secondo quell’estetica pensiamo immediatamente a Warhol. Ma quando ci si trova di fronte a un originale della Marilyn si ha la strana sensazione di essere di fronte a “uno dei tanti originali”, non a un pezzo unico. Il suo valore insomma viene percepito depotenziato perché ciò che si guarda è probabilmente una serigrafia o una copia eseguita con lievi variazioni e magari nemmeno dall’autore stesso ma da qualche aiutante istruito al caso.

Non conosco così bene Warhol da poter affermare che operava così. Magari le ha eseguite lui e di copie di originali se ne fanno da secoli e se ne accetta appunto il valore inferiore all’originale. Nel caso della Pop Art — o forse dovrei dire “L’illusione della Pop Art” — è che ogni opera che le appartiene sia un originale, anche se si tratta evidentemente di una copia.

Bisogna forse accettare il fatto che il rapporto che si instaura fra artista e osservatore della sua opera ha subito una mutazione in epoca moderna: molte opere d’arte moderne e contemporanee infatti non sono state eseguite dal loro autore. Sono un po’ come i prodotti Apple: sono “designed” nella mente del loro creatore ma sono eseguiti altrove, da altre persone che non necessariamente hanno legami con l’ideatore stesso. Spesso — non sempre — l’opera d’arte contemporanea tradisce il legame secolare fra l’artista e chi osserva la sua opera. La definisco “l’aura” dell’opera ed è una sua peculiarità spaziale e temporale: un’opera non si esaurisce in sé stessa ma genera un campo temporale e spaziale che fa pensare all’osservatore che davanti a una tela o a un pala d’altare medievale un giorno di secoli addietro c’è stato per giorni, mesi o anni il suo creatore. E questa presenza è percepibile. Per questo il giorno che vidi la Flagellazione di Piero della Francesca a Urbino non pensai al solo quadro in sé ma mi si aprì invece attorno un varco spazio temporale che mi ricongiungeva con Della Francesca stesso: nella posizione in cui mi trovavo si trovò lui secoli addietro e la sua presenza era ancora percepibile. Il tempo veniva compresso a tal punto che i secoli trascorsi diventavano una trascurabile quantità.

Questo rapporto magico non esiste nella Pop Art e in molta arte contemporanea, per il semplice fatto che in molti casi davanti a un’opera di quel genere non c’è stato il suo creatore.

Il fatto di superare i limiti dello spazio e soprattutto del tempo non è trascurabile e a questo parte dell’arte moderna non ha dato una risposta. O forse ne ha data una: ha detto che il creatore può non essere più l’esecutore. Le due figure non necessariamente coincidono.

Ritorno sulla questione con una domanda: l’opera Pop Art o, più in generale, l’arte contemporanea possono evitare di rispondere alla domanda sull’importanza del gesto creativo dell’autore dicendo che non ha motivo di essere? Che il fulcro della questione è l’idea di ciò che l’opera esprime e non il come il suo creatore l’abbia eseguita, ammesso che l’abbia poi fatta materialmente?

Guardi una Marilyn e ti chiede cosa hai di fronte: un originale? Una copia? Porsi questa domanda ha senso perché storicamente c’è sempre stato un patto fra artista e osservatore: l’opera d’arte era sia una presenza oggettiva di un’idea dell’artista ma ne era anche il parto fisico. Oggi molta arte non risponde a questo requisito o se ne dice che è trascurabile. Lo nasconde o lo considera un problema marginale e nemmeno un problema, in fondo.

Eppure è un problema e tale resta ed è legato al paradosso di una forma di arte nata per elevare la cultura popolare e finita a essere governata dalle stesse leggi della produzione industriale. Che aura emana un’opera di Warhol? Che traccia del suo autore porta? Una buona riproduzione fotografica può avere lo stesso carico simbolico ed evocativo?

È una questione già dibattuta e risolta come non importante. Il concetto è più importante dell’esecuzione stessa, si dice. Del resto vi fu chi ne fece una forma d’arte, come Sol LeWitt e le sue puntigliosissime istruzioni per dipingere i suoi Wall Drawings. Che non eseguiva lui stesso.

Non tutto quello che è esposto a Palazzo Albergati è orfano del proprio creatore o creatrice: come già detto, ci sono pezzi unici, tra cui il notevolissimo David Salle e la sua raffinata tecnica. Ma per molte altre opere non puoi che chiederti se una riproduzione ti farebbe lo stesso effetto. Perché manca quell’aura e quel certo campo magnetico che l’arte originale sa emanare. Che sono poi anche una parte fondante del suo valore, percepito e reale.

Forse derivare da una cultura di massa ha ricondotto quelle opere a esserne alla fine parte della stessa logica: il prezzo da pagare per essere celebri e culturalmente rilevanti è quello di cedere la propria esclusività e il proprio essere davvero unici. Oltre alla perdita materiale del legame col proprio creatore. E tolte l’originalità e la irriproducibilità resta il concetto. Che non è poco e non nega l’importanza della Pop Art, ma è una cosa diversa dal valore intrinseco di un’opera d’arte.

--

--

Martino Pietropoli
L’Indice Totale

Architect, photographer, illustrator, writer. L’Indice Totale, The Fluxus and I Love Podcasts, co-founder @ RunLovers | -> http://www.martinopietropoli.com