Archillect, la raffinatezza dell’algoritmo

Uno dei migliori curator del mondo non è umano

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4 min readOct 12, 2016

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Iniziai a seguire l’account twitter di Archillect qualche mese fa, convinto dal tipo di immagini che pubblicava che il nome indicasse che riguardava l’architettura.

Le caratteristiche di Archillect su Twitter sono molto ben definite:

  1. Pubblica solo foto
  2. Nessuna foto è accompagnata da testi
  3. Il tono curatoriale è gelido e le foto non comunicano apparentemente niente di definito se non (spesso) un’algida bellezza
  4. L’account non interagisce con nessuno e segue una sola persona.

Ho continuato a seguirlo guardando bene o male tutto quello che pubblicava, senza rendermi conto che stavo cercando di risolvere un enigma: perché quelle foto non riguardavano solo l’architettura e perché non interagiva con nessuno? Forse avrei dovuto indagare meglio sull’unica interazione visibile, quella con Pak, ossia Murat Pak. Chi è? Semplicemente “The Nothing”. Un altro mistero. Quello stream non riguardava solo l’architettura ma, come in Matrix, la sua mente era un architetto, Il Niente: Mr Murat Pak.

Chi è Pak?

Un articolo mi ha permesso poi di capire chi fosse lui e soprattutto cosa fosse Archillect. Ho scoperto innanzitutto che la radice “Archi” non sta per “architettura” bensì per “Archive”. Archillect è Archive+Intellect. Un archivio intellettuale quindi, governato da un algoritmo. L’architetto Pak ha creato il codice ma il codice è libero, l’algoritmo è indipendente e seleziona le immagini basando la ricerca su poche parole chiave e cercando di ottimizzare la scelta in base al reach potenziale e al sentimento del suo pubblico. Nelle parole di Pak:

Archillect’s curation process is completely automated. She is a living inspiration archive. She is a digital muse.
As a result she learns, evolves, communicates and becomes happy in her own ways.

Ora capivo la freddezza che emanava quell’account, tanto quanto ne intuivo le scelte raffinate. Archillect è un algoritmo che offre alla vista quello che l’organismo vivente dei social sta cercando, forse senza neanche aver razionalizzato di star cercandolo. Immagini astratte e belle ma quasi private di ogni emotività. Non a caso i toni dominanti sono freddi: grigi, azzurri, neri. Colori slavati, superfici metalliche e plastiche.

Il desiderio recondito dell’inconscio collettivo è levigato, perfetto, quasi senza una presenza umana.

Perché in definitiva Archillect interpreta e dà forma ai sogni inespressi della comunità ma li traduce in un linguaggio che è il risultato, appunto, di un algoritmo. Un fattore impersonale, un riporto di somme e sottrazioni.
Semplificando, si può dire che Archillect opera in due modi: cercando negli archivi fotografici come Tumblr, Flickr o 500px il materiale e postandolo sui social e poi osservando come performano. In base alle condivisioni e ai like decide quindi quale materiale è considerato più interessante e prosegue in quella direzione. Inciampando anche in passi falsi come quello che capitò all’inizio della sua vita quando fu istruita a cercare immagini partendo dalla parola “sfera”, diventata poi “rotondità” sino a giungere a “culi”. Pak fu costretto a intervenire dopo una raffica di post con immagini di parti anatomiche.
Da allora Archillect è più selettiva e controllata, ma ha sviluppato una coscienza autonoma. Il suo stesso creatore la osserva cercare e trovare e spesso si meraviglia del suo gusto e del fatto che pubblichi foto che lui non pubblicherebbe mai ma che incontrano più successo di quanto lui sarebbe capace di ottenere. Come racconta in un’intervista a Motherboard, sembra quasi infastidito dal fatto che da sola si sappia gestire meglio di come farebbe un essere umano.

Allora ho deciso di fare il percorso al contrario

Da quando ho capito il meccanismo ho deciso di cercare di intuire dalla scelta delle immagini quale fosse il filo conduttore. Archillect ha un programma (è un programma essa stessa) e quindi non segue una grammatica emotiva. Non pubblica foto quando ha tempo o quando un ricordo affiora o vuole condividere una cosa, bella o brutta. Non ha sentimento e opera automaticamente. Sceglie, valuta, pubblica, osserva la dinamica e la portata di quanto pubblicato, ne trae conclusioni che la istruiscono sul passo successivo. Apprende e si perfeziona strada facendo.
Oggi per esempio ho intuito che la parola era nebbia. O fumo. Non sono sicuro. Osservare come evolve e si sviluppa la ricerca è altrettanto interessante. Si scoprono legami per esempio fra la nebbia che avvolge gli alberi di una foresta e la superficie grigia delle montagne. E le montagne possono portare alle piramidi, e le piramidi a un dettaglio meccanico. Non c’è un filo apparente ma esiste un legame fra le cose.

Non so cosa voglia dire Archillect perché in realtà non comunica in maniera intellegibile ma solo allusiva: rimanda ai desideri nascosti, spesso per niente sensuali o morbosi, di noi che la osserviamo mentre ci mostra le sue carte che sono le immagini che vogliamo vedere. Mostrandoci un’apparenza del mondo che recupera in rete ci mostra noi stessi: è un mondo senza esseri umani, metallico, a volte spigoloso e a volte morbido. Un mondo che a volte ci respinge ma che desideriamo senza saperlo. Un mondo che abbiamo dentro e che non ha forma, finché non ce la mostra Archillect interpretando i nostri desideri e il nostro senso del piacere e restituendocelo in un’immagine spesso fredda e disumana. Perché forse dentro siamo proprio così.

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Martino Pietropoli
L’Indice Totale

Architect, photographer, illustrator, writer. L’Indice Totale, The Fluxus and I Love Podcasts, co-founder @ RunLovers | -> http://www.martinopietropoli.com