Chi è Banksy?
Una mostra a Palazzo Diamanti a Ferrara e qualche domanda, che non svelerà niente di lui
Il successo di Banksy appoggia su diversi punti: il suo anonimato, la semplice complessità del suo messaggio, l’impatto mediatico che ha ogni sua opera.
Di lui non si sa niente se non che è — potrebbe essere, si dice, si vocifera — un membro del gruppo Massive Attack e che è di Bristol. Che si tratti di un individuo singolo o di un collettivo non è dato sapere e forse importa poco.
Perché ha sempre voluto rimanere anonimo? Per slegare l’artista dalla sua opera e per lasciare che questa emerga solo per la propria forza e sia fuori dal cono d’ombra di un nome, qualsiasi esso sia? In fondo Banksy è un nome: non indica necessariamente una persona ma è un marchio. Come tale si è registrato anni fa per poter proteggere i suoi lavori da eventuale sfruttamento commerciale.
Come spiegare chi è Banksy a chi non ne sa niente di lui? È un artista che ha cominciato ormai 20 anni fa a esprimersi attraverso murales, graffiti, stencil, magliette e copertine di dischi. Il suo linguaggio usa tutti i codici dell’arte urbana e della cultura hip hop ed esprime messaggi di critica sociale ed economica, di pacifismo e di condanna della società consumista.
Curiosamente lo stesso ambiente che egli critica è quello che lo adora e ne ha decretato il successo. Banksy vive sul sottile confine che separa la cultura underground e anarchica da quella mainstream e ormai assimilata al Sistema: non può essere criticato dagli oppositori del capitalismo perché non vende le sue opere e compie azioni pacifiste animate da un forte attivismo e non può essere considerato un corpo estraneo dal capitalismo perché ne usa i codici e ne sfrutta i meccanismi e i tic.
Banksy funziona anche perché parla il linguaggio dell’Impero del Male e l’Impero del Male lo intende perfettamente.
Che sia o meno sua intenzione, la sua opera non è un corpo estraneo al Sistema e, anzi, ne usa i linguaggi con sapienza. Banksy parla a un pubblico preciso e quindi comunica, più che fare arte.
Ci pensavo aggirandomi fra le stanze di Palazzo dei Diamanti a Ferrara. Mi chiedevo — che fosse poi importante, non lo so — se la sua opera fosse Arte o un buon prodotto di comunicazione.
Se ti espongono a Palazzo dei Diamanti sei un artista affermato, qualsiasi standard si prenda in considerazione. Per un’istituzione dell’arte come quel luogo lo sei, non c’è discussione. Quindi mi chiedevo se quella che stavo guardando fosse arte.
Le opere esposte provengono tutte da collezioni private. A inizio mostra i curatori Stefano Antonelli, Gianluca Marziani e Acoris Andipa chiariscono che l’artista non c’entra in nessun modo. Ciò che è esposto è il risultato del paziente lavoro di chi ha raccolto le opere e ha cercato il filo conduttore che le legava. Che in verità è abbastanza chiaro e ruota attorno a figure simbolo e a tecniche consolidate.
I materiali esposti sono per lo più stampe, qualche olio, video, delle sculture, magliette e copertine di album e CD. In tutto un centinaio di opere che, salvo casi particolari ed esigui, sono copie e riproduzioni. Il prodotto di Banksy — se vogliamo usare questo sostantivo così orrendo parlando di un’opera d’arte — usa le invenzioni del capitalismo per propagarsi: non tanto la stampa che è precapitalista, ma piuttosto l’industrializzazione della stampa e i vettori del suo messaggio: i video, le foto e i mezzi che le diffondono, come i media e i social. Dico ciò non per sottolineare un’ipocrisia banksiana ma per constatare che se non esistesse il capitalismo, Banksy non esisterebbe in questa forma.
Banksy giustifica la sua esistenza attraverso la critica del sistema che gli ha permesso di esistere.
Da qui in poi è facilissimo scivolare nel discorso paternalista che ammonisce chi sputa nel piatto in cui mangia. Infatti voglio andare altrove e oltre.
Da una parte c’è l’opera di un artista esposta in una prestigiosa istituzione pubblica italiana. Dall’altra ci sono le opere che, di per sé, non hanno una qualità materiale particolare: sono riproduzioni da master digitali. Eccetto gli oli e poco altro, Banksy è l’autore di idee e di invenzioni folgoranti e spesso spiazzanti, non di opere. Le opere rappresentano delle idee, sono la forma disegnata e simbolica di un concetto. Parliamo di concetti interessanti, resi in maniera brillante e con arguzia, usando la contrapposizione fra immagini pacifiche e tensioni belliche e laceranti, come il famosissimo Flowers Thrower che lancia un mazzo di fiori invece della molotov.
La tensione fra due estremi molto distanti – concettualmente e filosoficamente – è il principale generatore dell’arte di Banksy.
Si tratta anche di un meccanismo consolidato di creazione di significato impiegato dalla pubblicità, e questo fa pensare a lui come a un copy molto capace. L’esito di queste equazioni mentali è sempre la stupefazione che si genera dal contrasto fra opposti che interagiscono: le signore inglesi che giocano a bocce con le bombe, la polizia in tenuta antisommossa ma con la faccia come un emoticon sorridente e rassicurante, il gruppo di figure femminili angosciate in contemplazione del cartello che annuncia la fine dei saldi.
Più opere si vedono più ti viene da pensare che la tecnica non varia e che l’alchimia è presto svelata ed è sempre quella: prendi due opposti e li metti in relazione fra di loro, rappresentandoli con la tecnica degli stencil o come un olio, a volte.
Si insinua un sospetto: e se Banksy fosse sostituibile da un algoritmo? Se Banksy potesse essere qualche linea di codice?
Un artista mette sempre in scena la propria visione del mondo e non c’è dubbio che Banksy ne abbia una molto ben definita e collocata nel solco della critica alla società occidentale. Si tratta di una posizione che merita rispetto ma che riscrive la sua dimensione artistica che viene spogliata di un tratto caratteristico: l’imprevedibilità dell’azione artistica, lo stupore dello svelamento di una realtà futura, la capacità di evocare ciò che ancora non esiste. In fondo la materia di Banksy è il presente e il suo sguardo volge sempre al passato o alla contemporaneità.
C’è poi l’aspetto della riproducibilità e dell’esecuzione dell’opera artistica nella contemporaneità. È un tema a lungo dibattuto e forse senza soluzione: come spesso accade, ogni cosa non ha valore in sé ma ha quello che le si attribuisce per convenzione. Un originale dovrebbe valere più di una riproduzione (normalmente è infatti così) ma nel caso di Banksy questo assioma raggiunge proporzioni bibliche: quasi ogni sua opera è riprodotta in moltissime copie ed è quasi impossibile definire quale sia l’originale, a meno che non si tratti di un murales.
In effetti questo è uno degli aspetti della sua arte che lui riesce a mettere più in crisi, forse proprio per il fatto di non essere un artista classico. Lui è più un generatore di idee che vengono (o possono essere) realizzate anche da altri. Lo stile è riconoscibile e riproducibile, non esiste una “mano di Banksy” se non in quanto insieme di tecniche di rappresentazione. Vedendo le sue opere, ancora una volta, ci si chiede se sia poi così difficile creare un Banksy non originale e spacciarlo per tale.
Le tecniche usate si intrecciano poi con l’esecuzione delle opere stesse: il fatto che si tratti del prodotto di tecniche note usate con un’estetica altrettanto nota relega l’esecuzione stessa sullo sfondo, dandole un’importanza relativa.
Se ci si fa caso — e con le dovute profonde differenze — il disvelamento di un’opera di Banksy segue la procedura dell’attentato terroristico: l’opera è resa visibile al mondo (spesso di mattino presto, dato che è stata eseguita nottetempo), i media azzardano attribuzioni, Banksy ne certifica l’originalità o meno dall’oscurità della sua batcaverna a Bristol.
I tempi dell’esecuzione di un’opera banksiana sono teatrali e multipli: esecuzione, disvelamento, certificazione e attribuzione.
Non sono tempi ignoti all’arte in genere ma, nel suo caso almeno, le ultime fasi — che normalmente avrebbero una valenza più legale che altro — assumono un’importanza scenica e mediatica inusuali.
Banksy è l’insieme di queste fasi o, in altri termini, Banksy esegue un’opera dando un peso alle fasi finali e storicamente accessorie (certificazione e attribuzione) molto maggiore. Queste fasi sono parte della teatralità mediatica della sua opera.
La domanda iniziale, si sarà capito, non verte sull’identità anagrafica di Banksy: come si chiami e se sia una persona o un collettivo non ha molta importanza. Chi è Banksy? é la domanda che ne nasconde un’altra: Banksy è un artista o è solo un copy molto abile? Il fatto di essere esposto a Palazzo dei Diamanti dovrebbe fugare ogni dubbio, eppure. Eppure la risposta potrebbe essere che Banksy è un artista dei tempi correnti. È, tutto sommato, facile da capire e raccoglie consenso. Dà l’impressione a chi lo capisce di aver capito l’Arte e di partecipare di un significato più alto.
L’arte contemporanea non è sempre così comprensibile o forse non è mai allineata ai tempi correnti, precorrendo il futuro. Banksy è troppo comprensibile per essere oscuro, usa un linguaggio troppo chiaro e facile (anche in termini di critica al sistema — è assertivo e autoevidente, e anche autoassolutorio).
Banksy è perfetto per la profondità dei tempi correnti. Sta in superficie, è evidente ed esplicito, assolve chi lo capisce e condanna chi lo condanna. Soprattutto, ed è il suo limite maggiore, dipende dal contesto che evoca e che critica.
Se manca quel contesto, manca Banksy. L’arte costruisce la realtà — specialmente quella che ancora non esiste — mentre Banksy ha bisogno della realtà per esistere, creando una condizione di dipendenza che non gli permette di essere oltre il presente, oltre il tempo, al di là di ogni realtà.
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