Il pranzo di Paolo

Un giorno con Paolo Cognetti, nel suo rifugio

Martino Pietropoli
L’Indice Totale
9 min readOct 26, 2021

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Annotando dettagli su una giornata di fine ottobre trascorsa con Paolo Cognetti, mi sono spesso trovato a indugiare sul come chiamare quel luogo dove vive per metà dell’anno. È una casa o un rifugio? E cosa è esattamente un rifugio? È il nome che diamo noi abitanti della città e della pianura a qualsiasi costruzione dove si vive oltre una certa quota o è un luogo più mentale, una struttura che difende?

Poi la chiamavo baita, malga, casa anche, ben sapendo che quei termini non erano corretti o che non descrivevano bene di cosa stessi parlando.

Quel luogo e quei muri e quel tetto, Paolo Cognetti li ha voluti e amati moltissimo: lo si capisce da come ne parla in ogni suo libro — dalle Otto Montagne al nuovo La felicità del lupo — e da come ce la mostra. La piccola casa che nella mente del lettore è la stessa che i protagonisti de Le Otto Montagne sistemano insieme un’estate, da qualche tempo si è ampliata con il recupero della stalla, una costruzione più grande in cui Cognetti ospita amici e artisti, scrittori e viandanti. “Perché la solitudine è bella qualche giorno, ma poi mi fa piacere avere attorno delle persone amiche”, dice.

Dalle sue interviste e dalla visione di Sogni di Grande Nord, il film documentario sul suo viaggio assieme all’artista e amico Nicola Magrin sulle orme di Chris McCandless, avevo ricavato l’impressione che lui fosse ombroso e burbero. Invece ci viene incontro alla fine della salita che dal borgo di Estoul in val d’Ayas conduce verso il suo rifugio — fisico e mentale, ormai mi son deciso a pensarlo così — ed è sorridente.

È con Lucky, il suo cane che avrebbe dovuto diventare pastore “Ma ha il sangue del setter irlandese e non era adatto a badare al pascolo” e che gli gira e ci gira attorno curioso e affettuoso. Sta sempre a qualche metro da Paolo, lo guarda e poi guarda noi, ci prende le misure leggendole negli occhi del padrone. Più li guardo stare insieme e più mi convinco che siano un’unica cosa e che non vivano insieme per caso, che si siano trovati. Lucky è di quel luogo, avrebbe dovuto badare ai pascoli di quella valle ma il destino l’ha portato al fianco di Paolo, uno scrittore, un abitante della montagna ma anche della città, un uomo che è difficile descrivere in maniera precisa perché è in continuo movimento fra l’orizzontale e il verticale, fra l’alto e il basso (altimetrico).

Cognetti vive in montagna fino all’arrivo dell’inverno e poi scende a Milano. Torna ogni tanto durante l’inverno perché la montagna lo chiama. Gli chiedo come faccia a Milano a camminare tanto quanto faccia su questi sentieri. “Soffro — dice — assieme a Lucky. Facciamo lunghe camminate ma non è la stessa cosa e allora ogni tanto torno”. Mi viene in mente una cosa che disse in un’intervista: disse che tutti i viaggi ormai sono stati fatti, tutti i luoghi belli e degni sono stati visitati e fotografati. Ora è giunto il tempo in cui il viaggio che deve essere intrapreso è quello nel brutto, nella periferia. Lo diceva senza scherno, intendendo che il brutto è anche l’interessante, che in quel brutto c’è una risposta che la contemplazione del bello non riesce più a darci. O almeno così mi è parso di capire.

La valle invece è bellissima e la contempliamo camminando assieme a lui mentre ci mostra le opere di land art che alcuni artisti hanno eseguito e donato alla comunità durante le edizioni del festival che per qualche anno ha curato in una radura distante poche centinaia di metri da casa sua. È una giornata in cui l’autunno ha deciso di essere sfacciatamente glorioso ed è facile capire perché si possa decidere di vivere lì. Ma un conto è starci in compagnia, un conto da soli. Da soli non ci si sta quasi mai, intendo da soli per scelta — non da soli come si è soli in un grande città. La solitudine come dimensione voluta e non subita è rara, anche perché è difficile da sostenere.

In fondo anche quando siamo soli non siamo mai soli perché siamo in compagnia di noi stessi, e può essere una compagnia insopportabile.

Quando lo si è come lui, quando insomma si decide di esserlo, si cerca la compagnia di un cane, si conoscono i vicini di casa, ci si interessa di cosa succede in paese. È un po’ come se l’isolarsi spingesse a creare delle connessioni che prima non si sarebbero cercate. All’inizio della sua vita in quel luogo, Cognetti ha vissuto una certa diffidenza dei locali: era uno scrittore, era uno che veniva dalla città, non c’entrava molto con la montagna, non c’entrava per niente. Quando ha iniziato a conoscere le persone e loro hanno capito cosa faceva si sono tesi dei fili invisibili fra una casa e l’altra. Mentre camminiamo vede in lontananza i vicini (che in realtà stanno a un centinaio di metri sopra di lui) e si scusa ma deve allontanarsi un attimo per salutarli. Scambia qualche parola e poi torna da noi, con Lucky al suo fianco. Stanno andandosene anche loro, fra qualche settimana arriverà la neve e poi inizierà la stagione sciistica, comunque quasi tutto è chiuso in attesa dell’inverno, quando tutto cambia e il verde scompare.

Ripenso a cosa è semplice. Cosa significa “semplicità”? Non intendo quello che dice il vocabolario, intendo per me o per le persone: semplice è frugale, semplice è povero, semplice è naturale? Forse ho trovato una risposta:

Semplice è non aspettarsi risposte.

Oddio, non so se sia esattamente una risposta ma mi accorgo di aver usato troppe volte delle forme interrogative e avrei voglia di non averlo fatto o magari di aver trovato la soluzione a qualche quesito.

Qui è tutto semplice: la casa è fatta con dei solidi muri di pietra e un tetto di legno, all’interno ha una cucina, sopra c’è una camerata con dei letti singoli e due camere matrimoniali, sotto c’è una zona comune con una stufa, una libreria, un tavolo ricavato dal legno dell’abbeveratorio della stalla, delle poltrone per leggere, una carta della zona appesa al muro, di fianco a una chitarra e a un ukulele. Sarà un ukulele poi? Mi sbaglio sempre e ho fatto un’altra domanda. Potresti disegnarla, ha pochi dettagli e ha una grande apertura vetrata quadrata che incornicia il versante opposto della valle. In montagna le finestre sono dei quadri mutevoli, questa non la puoi nemmeno aprire, in questa giornata ha cambiato immagine già decine di volte, questa notte sarà un quadrato nero, forse si vedrà qualche luce dall’altra parte. Semplicemente.

Paolo Cognetti ha trovato delle risposte? Il fatto che non sia fermo potrebbe far pensare di no, ma in fondo conta se le ha trovate? Quando abbiamo delle risposte può capitare di non essere soddisfatti di quello che dicono, di chiedersi se non ci sia dell’altro. Non è tutto troppo semplice, in maniera sospetta? Le domande inevase lasciano spazio alla vita, fanno intravedere che qualcosa continua, anche se non c’è ancora la pace, la sosta, la risposta, appunto.

“Rifugio” ha anche qualcosa di temporaneo: ci difende da qualcosa ma poi il pericolo passa. La dimensione temporale, come sempre, è essenziale. Ora accade di doversi proteggere, domani non più, domani si è altrove. Cognetti viaggia molto e l’alternarsi fra Estoul e Milano è un’oscillazione che ricorda il movimento del viaggio. Quando non è in viaggio si sposta fra quei due poli fisici ed esistenziali, in attesa di ripartire. Ripenso a quel racconto ebraico del vecchio ebreo che dalla Russia vuole andare in Israele e quando vi arriva vuole tornare in Russia, e ritornato in Russia ha nostalgia di Israele e riparte. Un giorno gli chiedono perché non sappia decidersi, dove vuole vivere? Lui risponde che non lo sa, che in fondo lui sta bene solo in viaggio.

La semplicità è non farsi domande, che non vuol dire sforzarsi di non farsene ma accettare che non ci siano risposte.

Questa valle è magnifica, ha una bellezza che fa quasi rumore. La senti più che vederla. Non pensavo che Cognetti avesse risposte, non ce le hanno nemmeno i protagonisti dei suoi romanzi: sono in continuo movimento anche loro. Anche le montagne in fondo si muovono, solo che lo fanno molto lentamente. È sempre una questione di tempo: chi si muove velocemente si svela, chi lo fa lentamente pare fermo. Le montagne ci sembrano ferme ma cambiano, si muovono, solo che lo fanno a cicli geologici, non lo si nota. Cambiano abito e colore e sotto quello si spostano. Eppure torniamo a loro perché non le possiamo scalfire, non le possiamo cambiare, ci sembrano delle divinità che non possiamo offendere, che non possiamo ferire. In montagna siamo solo abitanti, siamo temporanei, contempliamo un paesaggio di cui non facciamo parte o nel quale non possiamo integrarci fino a diventare corteccia o roccia. La vetustà delle montagne ridimensiona il nostro tempo: è così breve in confronto al loro, a quello delle montagne. Questa è la nostra dimensione: poca cosa.

Ho guardato le sue mani. Sono mani che lavorano, che toccano i materiali, il cibo, gli oggetti. Sono arrossate nei punti in cui sono esposte al freddo, sono rese ruvide dal contatto con le cose. Sono mani che lavorano e poi mostrano cose, creano oggetti nell’aria e con l’aria quando parla e spiega qualcosa, mostrandotelo.

La materia è qualcosa che è presente ovunque qui: nelle sue mani, appunto, nella roccia del rifugio, nel legno dei mobili, nella gravità. Mai come in montagna si percepisce la gravità: salendo percepiamo il peso del nostro corpo. Siamo pesanti, le cose sono pesanti, anche i pensieri finiscono per avere un peso. Non è un connotato negativo, anzi: è la constatazione delle loro proprietà fisiche, della loro consistenza, del loro valore. Più si sale e più l’aria è rarefatta, più diventiamo pesanti, più percepiamo quanto sia difficile essere leggeri. Ed ecco un’altra caratteristica della semplicità:

La semplicità è leggera.

Il mare è infinito, la montagna ti dà l’illusione di misurare le cose: una montagna è là, accanto ce n’è un’altra. Ci si può illudere che vederle insieme ce le faccia misurare, ce le faccia comprendere. Possiamo contare tutto in uno sguardo e ci pare una risposta. Ma non ci sono risposte, si diceva. Il mare è un infinito moltiplicarsi delle domande, la montagna ci restituisce l’eco di quelle che le poniamo. È uno specchio: in montagna vediamo noi stessi, dall’alto e dal basso. Abbiamo una risposta dentro? Conta, in fondo?

Scendiamo verso la città. Paolo è rimasto lassù. Mi accorgo che volevo scoprire cosa aveva scoperto, se aveva scoperto qualcosa. I personaggi delle sue storie non scoprono niente alla fine, scoprire non è lo scopo. Lui assomiglia molto ai suoi personaggi e in ogni suo libro ci sono lui e le persone di questi luoghi. Conoscerlo è stato come vedersi animare un suo racconto, e come un libro a un certo punto si è chiuso. Non ha risposto, non ha dato soluzioni. Ha lasciato qualcosa, ha raccontato un frammento di vita. Viviamo cercando risposte che non troveremo mai o che saranno come chiavi che aprono porte che conducono ad altri quesiti. L’importante non è avere risposte ma farsi domande, la saggezza è continuare a porsele e accettare che non avranno soluzione.

Un ringraziamento particolare a Einaudi per l’invito e l’organizzazione di questo incontro e alle compagne d’avventura Valeria Fioretta Gynepraio, Simona Melani e Camilla Ronzullo Zeldawasawriter. Dai discorsi che ho fatto potrebbe sembrare che siano stati giorni seriosi e di ombrose meditazioni e invece abbiamo soprattutto riso moltissimo.

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Martino Pietropoli
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Architect, photographer, illustrator, writer. L’Indice Totale, The Fluxus and I Love Podcasts, co-founder @ RunLovers | -> http://www.martinopietropoli.com