Il tennis è una complicatissima partita a scacchi giocata a velocità supersonica

Su “Borg McEnroe”, con Shia LaBeouf e Sverrir Gudnason.
Di Rocco Ciccone

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Non è facile scrivere di “Borg McEnroe”. Ché non è facile scrivere di un film sul tennis che non parla di tennis. “Borg McEnroe” dice tante cose. Dà ragione a Panatta quando diceva che il tennis è lo sport del diavolo e ci dà mirabilmente conto di quanto spesso, dietro la grandezza e il genio di certi individui, vi sia, ben nascosto, uno scrigno di debolezze e traumi e fragilità cristalline. Seguo il tennis da quando McEnroe, avanti di due set e un break nella finale del Roland Garros del 1984, perse poi quel torneo da quel marcantonio apparentemente senza emozioni di Ivan Lendl e, adirato, disertava la cerimonia della premiazione.

Seguendolo da così tanti anni, ho guardato il film sapendo benissimo quale sarebbe stato l’epilogo della partita raccontata, quella finale di Wimbledon del 1980 che, fino all’epilogo dello stesso torneo nel 2008 tra Federer e Nadal, sarebbe rimasta negli annali come la partita di tennis più bella e avvincente della storia. Sapevo che avrebbe vinto Borg, sapevo di quel tie-break sanguinoso del quarto set vinto da McEnroe annullando sette match-point, sapevo persino l’esatta dinamica del punto finale, quel passante di rovescio che eludeva la discesa a rete di SuperBrat e consegnava per l’ultima volta la coppa nelle mani dell’Orso svedese. Non è dunque per la narrazione della partita che ho guardato questo film, finendo con l’amarlo.

L’ho guardato perché, esattamente come ha dichiarato il regista, per una volta non era il tennis a interessarmi, ma cosa si nasconda nella testa di persone che arrivano sulla vetta del mondo praticando uno sport che, per come l’ho sempre visto io, altro non è che una complicatissima partita a scacchi giocata a velocità supersonica; e in tal senso non mi ha per niente sorpreso vedere McEnroe giocare a scacchi con suo padre. Ecco, il padre di McEnroe: un ricco borghese che non esita a mostrare orgoglioso al mondo questo figlio con i capelli ricci, il sogno del tennis e delle prodigiose capacità matematiche. E mentre lui interroga il piccolo John davanti agli ospiti chiedendogli il risultato di complicatissime operazioni matematiche, c’è sua madre che gli taglia i ricci e gli dice che aver preso novantaquattro centesimi al test di storia a scuola forse gli consente di essere il migliore della classe, “ma là fuori è pieno di ragazzi che avrebbero preso cento centesimi”.

E così SuperBrat cresce con l’ossessione di essere il migliore, coccolato da un padre che lo accompagna ovunque e che gli consente di dire, ogni volta che sbraita e litiga con i giornalisti o gli avversari, “Dopo ve la vedrete con mio padre”. John non soffoca le sue emozioni, John coltiva la sua ossessione per il numero uno del mondo e per Wimbledon e per quell’avversario monolitico che è Borg e lo fa con i suoi accessi di ira, con gli insulti all’arbitro e all’avversario di turno e al pubblico. Lo fa rifugiandosi nell’ascolto a volume altissimo della musica o uscendo a fare bisbocce con il suo funambolico e altrettanto matto collega Vitas Gerulaitis, quel Vitas che, dopo aver patito da Borg sedici sconfitte su sedici partite disputate, alla notizia del suo ritiro disse: “deve ancora nascere chi sia in grado di battere Gerulaitis 17 volte di seguito!” John non si nascondeva, insomma. “Eccomi qua”, ti diceva, “Io sono un tennista, sono il migliore e questa è davvero l’unica cosa che mi interessi. E voi altri fottetevi pure”. E non è esattamente rabbia, quello che lo porta a spaccare racchette, a urlare il suo famoso “You cannot be serious!” all’arbitro, a zittire il pubblico, a insultare e intimidire gli avversari, a rubare il tutore alla caviglia a Peter Fleming prima dei quarti di finale per vincere meschinamente una partita che sarebbe comunque stata sua: è la frustrazione di un ragazzo che sa di essere il migliore ma che non potrà mai dimostrarlo compiutamente finché non avrà abbattuto quel monolite che è Borg, perché fino ad allora sarà sempre il numero due.

Eccolo, l’Orso. Björn ha tre anni più del rivale americano e una biografia affatto diversa. È cresciuto in una famiglia che non può garantirgli gli stessi agi borghesi che coccolano l’americano, ha una madre che crede in lui e un padre molto severo e gioca a tennis iniziando a palleggiare contro un muro di casa, per poi ritrovarsi in un circolo della sua città. È forte, Björn: è davvero forte. Ed ha un tennis del tutto inusuale: la sua forza fisica gli consente di stare a fondo-campo e di ribattere a qualunque colpo e l’aver praticato hockey su ghiaccio ha fatto sì lui sviluppasse un rovescio bimane che è quasi una bestemmia per quei tempi, ma che ha il pregio di essere imprevedibile e terribilmente efficace. Anche Borg ha parecchi problemi caratteriali: è iracondo, vive una sconfitta come una piccola e dolorosissima morte, sa di essere il più forte e non ammette discussioni, tantomeno si fa problemi ad annichilire gli avversari. È destinato al confino dal tennis, lui così focoso nel praticare lo sport dei gesti bianchi in un paese come la Svezia. Poi Lennart Bergelin, capitano della Svezia in Coppa Davis ed ex gloria tennistica, si accorge di lui, del suo talento e del suo temperamento. Bergelin, interpretato da un monumentale Stellan Skarsgård, sarà da quel momento il suo allenatore, confessore e mentore. A Björn che gli dice che vuole essere il tennista migliore del mondo, quel Björn al quale era stato detto che il tennis non era uno sport per tutte le classi sociali, Bergelin risponde che sì: ce la farà, ma a patto che decida, quando è in campo, di tenere ermeticamente chiuse fuori dalla sua testa tutte le sue inquietudini. Ed è così che nasce il mito del Borg dagli occhi di ghiaccio, che neutralizza le sue paure e le sue ansie con i suoi riti maniacali, con l’incordatura di cinquanta racchette tutte le sere insieme al suo allenatore, con l’abbassare a livelli polari la temperatura della sua stanza per abbassare la frequenza cardiaca, con l’usare sempre due asciugamani, quando è in campo, col sedersi sempre sulla stessa sedia e col viaggiare, quando è a Londra, con la stessa identica macchina sulla quale era stato scorrazzato nel 1976, anno del suo primo trionfo. È così che Borg tiene a bada i suoi demoni, salvo poi scoppiare a piangere senza ritegno sotto la doccia. Se McEnroe sciorina festival di “Fuck you!” a chiunque gli ricordi che lui non è ancora il più forte, Borg, che con i giornalisti è prodigo di understatement e di frasi come “Io sono un normale tennista come tutti”, di fronte a questo riccioluto e impertinente americano, comincia a provare la paura. A sentirla. E ad esserne paralizzato. Il suo non è più il silenzio di chi non si lascia sfiorare minimamente dagli eventi, ma la paura zitta zitta di un re che sente che qualcuno sta per detronizzarlo. In questo senso, è sorprendente e a tratti disarmante la bravura dell’attore svedese Sverrir Gudnason nel rendere tutta questa gamma di stati d’animo contrastanti quasi esclusivamente con la mimica facciale, ché si sa che Borg non era esattamente un tipo loquace. Altrettanto bravo è Shia LaBeouf, forse facilitato, lui che è un SuperBrat del cinema, nell’interpretare una persona così simile a lui. E non va dimenticata la loro bravura tennistica, che dà alle loro interpretazioni ancora più credibilità e fedeltà agli originali.

Credo sia tutta qui, la grandezza di questo film: nell’averci mirabilmente raccontato, e per filo e per segno, cosa si celasse nella testa di questi due campioni leggendari che sembravano agli antipodi come stile di gioco e come carattere, ma che, forse, erano davvero molto più simili di quanto si possa immaginare. Non a caso, negli anni a venire, sono stati grandi amici. E forse la scena più commovente del film è quella del loro abbraccio in aeroporto, come se quella resa dei conti in campo altro non fosse stata che una riconciliazione. Un abbraccio fra due marziani con la racchetta che diventavano, fuori dal campo, umani, troppo umani nelle loro debolezze. Umani e dunque uguali.

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Martino Pietropoli
L’Indice Totale

Architect, photographer, illustrator, writer. L’Indice Totale, The Fluxus and I Love Podcasts, co-founder @ RunLovers | -> http://www.martinopietropoli.com