It is what it is

Maestoso ed epico, “The Irishman” di Martin Scorsese è la storia di chi vive all’ombra della morte per tutta la vita senza accettarla mai

Rocco Panofsky
L’Indice Totale
Published in
9 min readNov 6, 2019

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“The Irishman” è Frank Sheeran. Frank Sheeran è l’”Everyman” di Philip Roth, solo che lui non è ancora morto e così la sua storia e tutti i suoi incontri con la morte li racconta in prima persona. Racconta un’esistenza che sembra essere passata con l’ansia di accumulare ricordi per il resto della vita: ricordi che parlano di amore, guerra, mafia, amicizie, rimorsi, dilemmi umani e conflitti morali, sopraffazione, redenzione, tradimenti e necessità degli stessi, etica, pentimenti, omicidi, morte e accettazione della stessa. O, meglio ancora, convivenza con la stessa.

Frank, che nel libro “I heard you paint houses” (da cui è tratto il film) ripete continuamente “Non sono stato fatto con un dito”, passa un’infanzia caratterizzata da una povertà rumorosa e vivace che gli dà la durezza mentale necessaria per arruolarsi nella 45° Divisione Fanteria dell’esercito americano, che poi verrà definita la “Divisione Killer”, andare a combattere contro i tedeschi sul fronte europeo e partecipare allo sbarco ad Anzio. È così che la guerra diventa l’avvenimento che fa di Frank ciò che è, per sé stesso e per gli altri, è qui che la tragedia collettiva finirà per diventare la tragedia della vita quotidiana di Frank: perché è qui che Frank inizia a uccidere e a farlo senza rimorso, perché “andava fatto”, come fosse del tutto inevitabile. Frank viene congedato nell’ottobre del ’45. Il giorno dopo compie venticinque anni, ma solo per il calendario. Tornato a casa, sposa Mary (dal matrimonio nasceranno Mary Ann, Peggy e Dolores), si trasferisce a Filadelfia, cerca di destreggiarsi in mille lavoretti più o meno legali e così entra nelle grazie dei capimafia del posto, Angelo Bruno e Felix “Skinny Razor” DiTullio. Grazie a loro, poi, conoscerà il boss Russell Bufalino. Russell non ha una sua famiglia, è più una specie di “consigliori”, un “mammasantissima” a cui tutti chiedono consiglio e permesso. Proprio per Bufalino, Frank inizia a “pitturare case”, cioè a uccidere persone su commissione (e a “pitturare” di sangue le pareti della case delle vittime, dopo avergli sparato), oltre che a occuparsi anche di “falegnameria” (cioè di reperire una bara per i cadaveri e di farli sparire).
La sua spietata efficienza, il suo “fare quello che va fatto”, lo fanno salire nei ranghi dell’organizzazione e nella stima di Bufalino, che gli presenta quella che sarà la persona centrale e più importante della vita di Frank: Jimmy Hoffa, a sua volta molto amico di Bufalino. Da quel momento le vite di Frank e Jimmy e Russell saranno per sempre e inestricabilmente legate. Frank, che intanto ha lasciato la prima moglie, si è risposato con Irene e ha avuto la sua quarta figlia, Connie, entra nel sindacato come tuttofare di Jimmy (occasionalmente pitturerà case anche per lui) e mantiene i suoi rapporti all’interno della mafia italo-americana: in sostanza diventa un pompiere che aspetta che scoppi un incendio per poi andare a spegnerlo. Col fuoco.

Il sangue degli omicidi scorre insieme alla storia di quegli anni: l’elezione di Jack Kennedy, la lotta alla mafia da parte di suo fratello Bob, la morte di entrambi e il Watergate di Nixon. Eppure la fitta trama della storia di quegli anni resta in sottofondo. Ciò che interessa a Scorsese è provare a capire cosa abbia potuto trasformare un uomo in un killer professionista e raccontare l’evoluzione del rapporto fra questi tre ingombranti personaggi. Hoffa, un uomo che sembra allenare costantemente la sua collera con fulminee e dirompenti esplosioni di ira, finisce in carcere e quando ne esce è fermamente intenzionato a riprendere il controllo del “suo” sindacato; anche a costo di andare contro la mafia, quella mafia che lui aveva fatto entrare nel sindacato e che ora se ne è impadronita. Russell, attraverso Frank, cerca invano di portarlo a più miti consigli, ma Hoffa, di cui una delle frasi più celebri è “posso avere le mie colpe, ma non certo quella di avere torto”, è un uomo incapace di scendere a compromessi, di abbassare la testa, di rintuzzare il proprio ego e sarà proprio il suo ego a ucciderlo, con due colpi di pistola alla testa sparati dal suo migliore amico, da Frank.

Tutto questo ci viene raccontato, come detto, dallo stesso Irlandese, ormai invecchiato, in balìa dell’artrite, triste, dolente, solitario y final in una casa di riposo e circondato dai fantasmi che non vuole che vadano via, come se non riuscisse a separarsi dal passato. Attorno a lui sono tutti morti, ci fosse un cristo alle pareti, anche lui guarderebbe Frank con indifferenza, e forse la consapevolezza dell’imminenza della sua assenza dal mondo gli crea un’inquietudine insanabile e con essa il desiderio di riprovare a fare qualcosa di autentico e così fa un gesto inaspettato, quasi melodrammatico per uno che aveva affrontato interrogatori e processi appellandosi sempre al Quinto Emendamento: parlare, raccontare la sua versione dei fatti.
Non si sta confessando, non sta cercando perdono dalle persone cui ha fatto del male né redenzione o rinascita spirituale, “ho fatto casino per ottantatré anni e preso a calci un po’ di culi, ecco quel che ho fatto”, dirà nel suo libro-memoriale. Frank ci dice come e perché abbia scelto di vivere (e morire) in quel modo, dell’inevitabilità di certe scelte. “It is what it is”, gli dice Russell quando gli ordina di uccidere Hoffa. Così è.

Quello di Frank è il soliloquio, talvolta delirante, di un uomo che ha scelto consapevolmente il male, che si è rassegnato allo stesso e che ora chiede che non gli chiudano completamente la porta della sua camera, perché la paura del buio lo fa tremare più dell’artrite.
Si capisce bene perché Scorsese, maestro assoluto del genere, abbia scelto di fare questo film. Per tutto il tempo, infatti, sembra che, seduti accanto a Frank a chiedersi “E adesso? Come abbiamo vissuto? Cosa faremo? Cos’altro ci aspetta? Cosa abbiamo imparato?”, ci siano anche lui, Robert De Niro e gli altri protagonisti. E in un film in cui i protagonisti non sfidano la morte, ma ci convivono, un film in cui i protagonisti sono la morte stessa e le emozioni di questi uomini, non poteva trovar spazio la narrazione quasi epica delle sue precedenti opere. Non c’è il Frank Costello di “The Departed”, smargiasso, con la battuta sempre pronta e gli occhi spiritati; il James Conway di De Niro in “Quei bravi ragazzi” è diventato Frank e non ha la sua stessa aura di invincibilità.

In questo film la violenza è vera, non è un vezzo artistico o un effetto, è vera e ha delle conseguenze reali e una di queste è che fa apparire quelli che la usano per ciò che sono veramente: dei perdenti imbardati in vestiti pacchiani, con pettinature improbabili, gioielli grossolani e un senso dell’onore che li rende patetici. Non c’è eroismo né superomismo, non scatta alcuna identificazione, non vorresti essere come loro come quando ammiravi estasiato Vito e Michele Corleone. Frank, Russell, lo stesso Hoffa e tutti gli altri conducono delle esistenze scandite dalla violenza e dalla tensione, e vanno avanti così, come nulla fosse, con una specie di silenzio a sigillare il cuore, come se il riverbero del loro unico sole, il potere, li avesse accecati di fronte alle emozioni, per poi ritrovarsi, nelle scene finali del film e delle loro vite, pieni di amarezza e di inadeguatezza. E all’improvviso sembra si vergognino di morire, come se la morte fosse un qualcosa di patetico, come se non potesse riguardare anche loro. E invece tutti moriamo. Tutti stiamo già morendo. E certe cose vanno prese sul serio, proprio perché fanno paura. E perché la morte non è, come direbbe Jimmy a Frank, “un secchio di merda nel quale potresti cadere per poi uscirne con un vestito marrone”, ma l’inevitabile buio in fondo al tunnel. It is what it is.

C’è un espediente al quale Scorsese ricorre per incentrare la vicenda sul piano emozionale e “confessionale”e non puramente narrativo. Nel libro da cui il film è tratto, Frank fa un accenno verso la fine alla sua secondogenita, Peggy, a come lei riuscisse meglio di chiunque altro a leggere dentro di lui e al fatto che, a seguito della sparizione di Hoffa, Peggy non gli avesse più parlato per il resto della vita. Lo sceneggiatore Steven Zaillian (già premio Oscar nel 1993 per la miglior sceneggiatura non originale per “Schindler’s List”), prende questo episodio e lo rende il fulcro della storia, la vera chiave di volta, e così il monologo di Frank finisce per essere una rincorsa al perdono di sua figlia, dell’unica persona che lo conoscesse davvero, perdono che non arriverà mai. È forse l’ineluttabilità di questo abbandono, la violenza di questa sensazione, a farlo tremare nell’anima; e a trasmetterci emozioni potentissime in un finale con poche parole e ancor meno dialoghi, un finale in cui il cipiglio giovanile di Frank si spegne in rughe di accettazione e rassegnazione. It is what it is.

Il film, ulteriormente impreziosito dalla fotografia di Rodrigo Prieto, che lo stesso Scorsese ha definito barocca e caravaggesca, splendida nel mostrare il fascino misterioso di quei luoghi quasi bui, di città e ambienti avvolti dall’oscurità, è stato girato per il 70% in digitale (anche per le necessità legate allo sviluppo della tecnologia di ringiovanimento dei protagonisti, così perfetta da non generare nessun effetto straniante) e per il 30% in 35mm, è come l’anello che Russell regala a Frank: d’oro e pieno di pietre preziose. E quelle pietre sono gli attori, tutti: che si tratti di interpreti che già si erano messi in luce per ruoli di questo tipo (come Domenick Lombardozzi, Bobby Cannavale e Stephen Graham, tutti già ammirati in “Boardwalk Empire”) o di splendidi cammei come quello di Harvey Keitel (altro attore feticcio di Scorsese, che sembra averlo richiamato come ha fatto Tarantino con Michael Madsen nel suo ultimo film). Poi ci sono loro, i tre tenori: Robert De Niro e Joe Pesci, compagni di vecchia data di Scorsese, e Al Pacino, che a quasi ottant’anni ci ha preso gusto e, dopo averlo fatto con Tarantino, si è tolto lo sfizio di esordire anche con Scorsese. Se Joe Pesci, che non recitava da circa dieci anni, ci regala un’interpretazione lontanissima dalla spocchia leggendaria del suo Tommy DeVito in “Quei bravi ragazzi” e che è invece misurata, intensa, giocata sulla sottrazione, sul non detto, sui silenzi e sugli sguardi, come se, con una sorta di riservatezza inglese, ti sentisse e guardasse senza guardarti davvero, se la maschera di afflizione di De Niro e i suoi occhi umidi di senso di colpa per aver ucciso Jimmy Hoffa (senso di colpa per nulla scalfito dal sapere che, se non lo avesse ucciso lui, altri li avrebbero ammazzati entrambi), sono un dolorosissimo cazzotto nello stomaco, è Al Pacino che svetta, seppur di poco, sugli altri due: la sua immedesimazione in Jimmy Hoffa è quasi inquietante, riesce a trasmettere perfettamente la vitalità collerica, l’ego smisurato e la sete di potere e di possesso del sindacalista americano, pur mantenendo i tratti, le espressioni, la cifra, i toni che lo identificano da sempre e ne hanno fatto l’attore leggendario che è.

Il 2019 ci ha già regalato interpretazioni memorabili, valgano per tutti il Brad Pitt in “C’era una volta a… Hollywood” e il Joaquin Phoenix di “Joker”, ma sembra che i tre tenori siano tornati dal loro recente oblio per ristabilire le gerarchie.
Non vanno dimenticati, infine, alcuni omaggi più o meno dichiarati che il regista fa a vecchi capolavori del genere: se le prime note musicali che riecheggiano sono quelle della colonna sonora de “Il Padrino”, se allo stesso film sembrano legarsi i dialoghi in italiano fra Bufalino e Frank (il “mangi ca crisci” detto dal boss all’irlandese resterà negli annali), la scena in cui l’irlandese sceglie la sua lapide “per quando sarà”, con l’autista che lo aspetta fuori, scena non presente nel libro, è un chiaro omaggio alla stessa scena di “C’era una volta in America”, quando De Niro/Noodles visita le tombe dei suoi vecchi amici.

“The Irishman” dura tre ore e mezza e sono tre ore e mezza di cinema maestoso ed epico, in cui ci viene raccontata la morte per quella che è, la livella di cui parlava Totò.
Secondo qualcuno, Martin Scorsese appartiene a quella categoria di registi che ci aiutano con le loro opere a capire chi siamo. Di certo ci ha fatto capire chi potremmo scegliere o meno di essere, con questo film.
“Ho seri dubbi che si possa essere felici”, ha detto un giorno.
Su una cosa, però, non ci sono dubbi: e cioè che queste tre ore e mezza ci ricordano che tutti sanguiniamo, anche i carnefici. It is what it is.

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