“Joker”, il male e noi

Il racconto di come un cattivo diventa cattivo fa nascere il dubbio che il male sia innato o instillato

Rocco Panofsky
L’Indice Totale
Published in
6 min readOct 8, 2019

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Il “Re per una notte” di Todd Phillips è “Joker”. E il posto del Rupert Pupkin di De Niro è preso dall’Arthur Fleck di Joaquin Phoenix, mentre a sua volta De Niro, col suo Murray Franklin, prende il posto che nel film di Scorsese fu del Jerry Langford interpretato da Jerry Lewis. E il gioco degli specchi con Scorsese parrebbe non finire qua, visto che questo Arthur Fleck sembra ricalcare tantissimo, nella sua discesa nell’abisso, nel suo essere eternamente non capito, l’amatissimo Travis Bickle di “Taxi driver”.

“Joker” è quello che il suo regista ha definito “uno stratagemma per far passare al grande pubblico un vero film” ed è, tecnicamente, ciò che si definisce una “origin story”: una storia che racconta come un personaggio dei fumetti sia diventato quel che tutti sappiamo, quel che è diventato; ma è anche molto di più.

“Joker” è la cronaca di uno sprofondare. Arthur Fleck è un uomo che è nato dalla parte sbagliata del mondo e senza che intervenisse il sogno americano a consolarlo.

È un uomo che è nato in mezzo ai poveri e ai disadattati e ai dimenticati, in mezzo agli ultimi: gente che nascerebbe senza il buco del culo, se la merda avesse un prezzo. Ha tutti i problemi reali di questo mondo, Arthur: la solitudine, un’infanzia di cui non ti chiederebbe conto nemmeno Freud in persona, una mamma disfunzionale e anche invalida e la consapevolezza, lucida e spietata, di non essere mai stato felice nemmeno un giorno della sua vita. Arthur ha anche una patologia che lo porta a ridere convulsamente senza un apparente motivo: sua madre pensa che invece rida perché è felice, perché con quella risata si libra sulle brutture del mondo e sugli abusi del suo patrigno, e allora lo chiama “Happy”. Invece Arthur ride scompostamente, gesticola compulsivamente, balla come un tarantolato ovunque si trovi perché no, non è felice: vorrebbe solo esorcizzare l’inferno e rendere felice il mondo facendolo ridere, vorrebbe essere un comico; triste come tutti i più grandi comici. E nemmeno sua madre lo ha capito. Solo che, come tutti i vinti della Terra, passa attraverso rifiuti, risate, pestaggi, umiliazioni: la parte fortunata del mondo è con lui respingente, spietata, nichilista. Ed è qui che il film smette di essere (solo) la narrazione biografica di un personaggio e diventa politica: Arthur, che diventerà Joker solo negli ultimi fotogrammi, è un vinto. È depresso, psicopatico, violento, ma è un vinto. È uno degli ultimi, degli sfortunati. E ha tutti i problemi reali, veri, cupi, crudi degli ultimi. Non è più a lui che stiamo guardando, ma a quello che rappresenta: alla sua personalissima lotta di classe, lui contro tutti i Thomas Wayne del mondo.

Ed è così che, magicamente, Todd Phillips riesce a ribaltare la narrazione di Batman: all’improvviso non siamo più tutti dalla parte di Batman e dei buoni, no: all’improvviso proviamo per i cattivi la stessa quantità e gamma di emozioni e empatia che abbiamo sempre provato per i buoni, all’improvviso diventiamo tutti Joker. Come lo diventano tutti quelli che, nel film, decidono di indossare una maschera da clown e lottare contro i privilegi mettendo a ferro e fuoco la città. E così all’improvviso la sua risata sembra incarnare non solo il fondo nero della sua anima ma anche una ribellione a tutte le ingiustizie del mondo. Ma mentre procede senza sosta questa “normalizzazione politica” di Arthur che diventa Joker, si assiste anche alla sua privatissima e personalissima corsa verso l’inferno.

Ha un che di liberatorio, il vedere il mostro che esce fuori ed esplode in tutta la sua bestialità e spietatezza: perché per due ore guardi rapito questo film sapendo esattamente dove stia andando a parare quel povero ragazzino che danzava per sollevarsi dalla sua vita nefasta, lo sai e non vedi l’ora che arrivi dritto al punto, e quando lo fa, quando esplode la sua violenza, ti senti quasi liberato.

Perché per circa due ore i drammi interiori del povero dinoccolato Arthur ti hanno stretto in una morsa angosciante e soffocante. E così Joaquin Phoenix riesce a rendere liberatorie delle sequenze che sono di pura, a tratti efferata, violenza e lo fa per gradi: passa dalla risata nervosa e senza motivo con la sua psicologa e poi su un autobus, per la quale chiede scusa a una passeggera, a quella comprensiva quando ascolta i deliri di sua madre a quella strafottente quando si rende conto di non aver timbrato il cartellino al lavoro per poi passare a quella lucida e spietata del suo ultimo monologo di fronte a Murray Franklin, poco prima di quella finale, quella rassegnata ma pacificata, e forse per questo più inquietante. Toglie il respiro, seguire questo percorso: perdi chili insieme a Phoenix. E forse sì: forse togliendo lui non rimarrebbe nulla; ma questo non è un demerito del film, solo un’altra stelletta sulla sua performance magistrale e gigantesca. Perché quella performance dà l’altra chiave di lettura di questo film, che non è politica, ma quasi filosofica ed esistenziale. Se il Marcello di “Dogman”, infatti, cede alla violenza quasi per rassegnazione, e con rassegnazione sai che si porterà la sua croce di colpevole pronto a pagare per le conseguenze di quel che ha fatto, Arthur è contento, è felice. Non è più il piccolo Gwynplaine de “L’uomo che ride”, il bambino raccontato da Victor Hugo e interpretato al cinema da Conrad Veidt (al quale lo stesso Phoenix dice di essersi ispirato) venduto ai comprachicos che l’hanno sfigurato aprendogli le labbra in modo tale che sembrino paralizzate in una risata immobile ed eterna.

Arthur sembra aver ribaltato Kant: la legge morale dentro di lui è il caos e lui non ha niente da espiare, a maggior ragione perché lo hanno proclamato capopopolo in mezzo al caos. La nuova legge morale è il caos e lui È il caos. Una delle frasi che scrive più spesso nel suo quaderno, vergandola quasi col sangue, è la domanda “Is it real?”. E a un certo punto ti rendi conto che di reale c’è solo la violenza. La sua. E ti rimarrà il dubbio: è diventato così per le brutture della vita, come il Marcello di “Dogman”, o forse è sempre stato cattivo, indipendentemente da tutto il resto? Forse quel suo ballo, per il quale dice di essersi ispirato a Ray Bolger, lo spaventapasseri de “Il mago di Oz”, non è altro che una danza della morte.
Il finale del film è violento, triste, commovente. È anche vagamente tarantiniano, quando dopo la scena cruenta negli studios parte in automatico il jingle della trasmissione. E no, non dà speranza. Joker è diventato quello che tutti sappiamo e conosciamo, e il piccolo orfano Bruce Wayne sarà il supereroe che lo neutralizzerà e ci farà dormire tranquilli, ché il bene avrà vinto ancora una volta. Ma lui, Arthur, sarà sempre lì: ballerà e riderà senza motivo e darà voce agli ultimi e umanizzerà l’inferno e l’abisso, per ricordarci che noi siamo come lui molto più spesso di quanto speriamo di essere come il piccolo Bruce. Per questo David Edelstein di Vulture, che ha scritto che Joker è «una sola nota fastidiosa suonata sempre più forte», si sbaglia: perché “Joker” è una nota stonata suonata sempre più forte, sì: ma perché chiunque possa sentirla.

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