La fotografia in 1993 e in Bloodline

La bellezza della fotografia cinematografica non è un valore estetico, o non solo

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5 min readJun 3, 2017

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In questo periodo sto guardando contemporaneamente 1993 e Bloodline e mi spiace dirlo dato l’evidente lo sforzo fatto dalla produzione italiana, ma non ci siamo proprio. Potrei dire qualcosa della recitazione (non dei personaggi principali ma anche di qualcuno di loro) ma preferisco soffermarmi solo sulla fotografia.

Quando non è classica e impostata in 1993, diventa onirica e sperimentale, con risultati che nella migliore delle ipotesi danno un tono artificioso all’insieme. Al contrario, quella di Bloodline non ha niente di sperimentale ma è infinitamente più coerente in sé e nei fini che si propone, cioè quelli di essere strumentale alla narrazione.

Se dovessi descrivere in un grafico i due diversi approcci, quello di Bloodline sarebbe una linea continua con valori molto alti di efficacia visiva, mentre quello di 1993 sarebbe una specie di spezzata con qualche coda che se ne va per i fatti suoi quando il direttore della fotografia decide di cambiare il registro narrativo, sostituendo alla fotografia tradizionale da serie TV italiana certe note più artistiche, nel senso di strane: immagini sovraesposte e lisergiche, tagli di luce irreali che illuminano solo i volti, quasi dei Caravaggio che però non si capisce bene che senso abbiano. Siccome 1993 è una ricostruzione fedele, si presuppone che anche la fotografia sia altrettanto realistica. Me lo chiedevo vedendo certi interrogatori alla Procura di Milano in cui i volti degli attori erano illuminati in maniera neanche surreale ma proprio irreale. Che senso avevano se non appagare l’ego del direttore della fotografia?

Intendiamoci: la fotografia surreale va benissimo ma quando ha un senso nella narrazione. Prendiamo Wes Anderson. Le sue inquadrature geometriche, i suoi movimenti di camera precisi, le sue cromie hanno uno scopo: parlano di una realtà così precisa (eppure vitale) da non essere nemmeno irreale ma proprio surreale. Quella della famiglia Tenenbaum o delle vicende che si incrociano al Gran Budapest Hotel, per esempio. Immaginare quelle storie raccontate in modo diverso è impossibile: quello di Anderson e del suo direttore della fotografia è il tono visivo perfetto perché ti prende il cervello fra le mani e te lo porta altrove, su quella dimensione narrativa che a loro interessa. È la magia del “make believe”, che è diverso dalla semplice finzione: è la costruzione di un altro mondo che troverai surreale ma nel quale crederai fortemente.

In Bloodline invece le conversazioni fra i personaggi non sono solo costruite su primi piani ma usano riprese da punti di vista diversi, col risultato di non darti l’impressione di vedere un film ma di essere in quella casa e di ascoltare proprio quella conversazione.

A volte vedi i personaggi in campo medio ed è come se tu fossi seduto distante da loro ma potessi origliare. E infatti stanno dicendosi qualcosa che è meglio non si sappia. Quando parlano in pubblico si vede tutto, perché la cosa è, appunto, pubblica. E come viene usata la camera a braccio? Non in modo manieristico ma perché in quel punto serve ci sia, perché dietro c’è l’osservatore.

Della fotografia dei film si dice spesso che è bella perché restituisce immagini belle, ma, come per la fotografia statica, le immagini belle sono molte volte le più ovvie e insulse e noiose.

Io credo invece che la bella fotografia sia quella coerente con il fine che si prepone: deve essere coesa e strumentale alla narrazione. Fatta in buona maniera e non manieristica, perché dice le cose nel modo giusto e non nel modo più bello. La bellezza è data dall’insieme e non dalla parte, per quanto bella essa sia. Le parti devono equilibrarsi fra di loro e quindi essere anche stilisticamente difformi, realizzate con tecniche diverse ma perché il fine è quello di creare un insieme bilanciato. Non cambiare improvvisamente registro perché a un certo punto è venuto l’estro a qualcuno. La fotografia cinematografica più bella è quella dichiarata all’inizio e che arriva alla fine con lo stesso tono di voce. Si tratta della voce visiva alla fine, no? Come una voce umana può avere volumi o toni o sfumature diverse ma ognuno ha il suo timbro.

Non so se sia la fotografia americana a riuscirci meglio in genere, ma so che fra le due che casualmente in questo periodo storico mi son trovato a vedere contemporaneamente quella di gran lunga più bella la si vede in Bloodline.

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Martino Pietropoli
L’Indice Totale

Architect, photographer, illustrator, writer. L’Indice Totale, The Fluxus and I Love Podcasts, co-founder @ RunLovers | -> http://www.martinopietropoli.com