L’amore stanco

Ossia “Storia di un matrimonio”

L’Indice Totale
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8 min readApr 13, 2020

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Una volta chiesi a una donna con la quale avevo una relazione di scrivere su un pezzo di carta le cose che amava di me (e io avrei fatto altrettanto). Mi disse, giustamente, che ancora non ci conoscevamo abbastanza e le risposi che avremmo sempre potuto aggiornarle, quelle liste, e che sarebbero state un memento del nostro amore nei momenti di difficoltà.

(Jean Cocteau, “La lettre”.)

Nicole e Charlie fanno esattamente questo, all'inizio di “Storia di un matrimonio”, ma lo fanno quando l’amore è già finito, e così quelle liste, da vivido memento diventano solo un triste e desolato e funebre e dolente resoconto. Quel salvare qualcosa per quando “non saremo più” finisce con aiutarli a stanare e certificare sensazioni e dolori che se ne stavano lì già da tempo.
Perché “Storia di un matrimonio” comincia dall'inizio della fine del matrimonio di Charlie e Nicole.
Sono dal terapista di coppia, quando il loro amore inizia ad essere portato all'attenzione degli altri, quando la loro sciagura privata sta iniziando a diventare un’arena con troppi combattenti in campo, e provano a leggere quelle liste, ma Nicole fugge via imprecando. Di lì a poco arriveranno gli avvocati divorzisti, gli scontri e le lacrime amare che non sarà possibile asciugare col semplice angolo del tovagliolo. La nebbia dei sentimenti se ne è andata e hanno capito tutto, e quel tutto è finito.
Charlie e Nicole si sono incontrati a una festa, si sono amati in modo turbinante, si sono sposati e hanno avuto un figlio. Lui è un regista teatrale e spesso dirige lei, attrice cinematografica strappata a una mediocre carriera losangelina, che contribuisce a dar luce al lavoro di tutta la compagnia, e quindi proprio al marito. Ed è proprio questo primo, apparentemente perfetto incastro, a rivelarsi, nel tempo, la crepa irreparabile del loro rapporto, il negativo tragico della foto di una famiglia apparentemente felice. Perché se Charlie, premuroso col figlio e sicuro di quel che vuole, va affermandosi sempre più, Nicole, che già si sente inadeguata come madre, finisce col sentirsi soffocata, fra le aspettative che il mondo, e suo marito, ripongono su di lei in quanto madre e attrice (ma solo al servizio del teatro di suo marito), e le sue ambizioni, come detto castrate per fare luce a Charlie.

E così si lasciano, perché non c’era (più) nessun incastro. Si amano ancora? Chissà, ma il punto è: ha importanza? Hanno importanza, i sentimenti, quando diventano un sudario per asciugare le costanti e quotidiane piccole delusioni che riceviamo dalla persona che amiamo? Forse è questa la domanda più importante che questo film ci fa. L’amore basta? La risposta è no. Se ci si ama tanto, si può finire con l’amarsi male. A meno che non ci si fermi prima. Prima che un terapista non ci chieda di raccogliere pezzi del nostro amore come fossero briciole di pane per Pollicino.

Charlie e Nicole si sono trovati grazie a un amore che hanno sentito con le ossa prima che nel cuore, e se ne sono fatti sopraffare, ma non ci hanno lavorato. Ci devi lavorare, con l’amore che ti è toccato. E loro non lo fanno. Si adagiano su quel sentimento e ne ignorano tutte le ambivalenze.

(“Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera”, Kim Ki-duk (2003).)

Cos'è che li ha portati fin lì, infatti? Cosa li ha fatti precipitare nel baratro? L’ambivalenza. Charlie è un uomo che si atteggia a moderno progressista ma nasconde una scorza retrograda e a tratti paternalista; Nicole è una donna che parrebbe intransigente nelle sue ambizioni, ma che poi si rivela rinunciataria per amore di un quieto vivere che finirà col soffocarla, farla scappare e poi mettersi con un ragazzo poco impegnativo e senza pretese. E così ambivalente è anche il loro matrimonio, sospeso fra la tradizione dell’uomo che si procaccia il pane e la donna che rinuncia ai suoi desideri e tutte le conquiste degli ultimi decenni in tema di parità. E questa ambivalenza lascia catatonici e spiazzati anche loro, oltre a replicarsi per tutto il film anche nella scelta delle città in cui vivere dopo la separazione: se Charlie resta nella sua rassicurante e ordinata New York, Nicole torna alla confusa e viva Los Angeles, città di spazi (e speranze) aperti. E così anche le due città recitano in questa guerra di nervi, estetica e sentimentale.

Perché sono così increduli e spiazzati? Perché in una scena già memorabile si urlano addosso le reciproche colpe e si sputano parole come fossero sassi, piangendo senza sosta? Perché non si erano mai resi conto, prima di allora, di essere passati dall’ “io e te” all’ “io contro di te”, dall'amore come idolatria, da una parte per un uomo risoluto e sicuro di sé e dall'altra per una donna dolce e pronta a caricarsi il matrimonio sulle spalle, a quella capacità di sentire solo, odiandola, la puzza dell’altro; come se scoprissero che quel cappotto, che pensavano essere il loro matrimonio, fosse sempre stato steso su una pozzanghera. Erano i sarti che avevano confezionato quel cappotto e non ne vedevano le cuciture, né ne sentivano l’odore.

Per questo si sputano addosso parole che sembrano sassi, per questo e perché sono stanchi di inghiottire: i torti, le giuste recriminazioni e, soprattutto, i non detti. Hanno capito che non c’è niente di più sbagliato, in una storia d’amore, dell’inghiottire; ché poi si finisce sempre per espettorare e vomitare tutto alla fine. E non c’è antiemetico che tenga. La prima lezione che ci impartiscono, Charlie e Nicole, è proprio questa: per non amarsi male, per non stancare il proprio amore, bisogna parlarsi. Sempre. Continuamente.

E così, quando Nicole capisce per prima che continuare a lasciar andare significherebbe non avere rispetto per sé stessi, che non può continuare ad essere la spettatrice passiva di quello sfacelo, arriva la resa dei conti: inevitabile come una marea e accompagnata da una parte legale (invero banalotta), una danza sulle tombe in cui i loro avvocati (un Ray Liotta in gran forma e una Laura Dern con un’interpretazione che sapeva di Oscar già dai titoli di testa e un monologo sui mali del patriarcato da trasmettere ai posteri) si fanno firmatari della loro apostasia dal matrimonio. Si passa dalle praterie dell’amore al territorio del giudizio morale, che di quell'amore è la tomba.

Si torna a sé stesi, mentre infuria la battaglia: sul divano dell’analista o sul letto della propria camera o quello di una scopata con un’altra persona fatta “perché con lei ridevo”, una scopata raccontata poi piangendo durante la memorabile litigata chiarificatrice.

Ed è la fredda ragionevolezza del senno di poi, in un momento in cui si stanno volendo bene forse come mai prima di allora, che fa capire a entrambi che se lei non era felice, con le ambizioni messe da parte per recitare un ruolo marginale a favore dei trionfi di lui, felice non avrebbe potuto esserlo nemmeno lui, costretto a dormire con una donna che non rideva più e a cercarsi per questo una scopata ristoratrice.

È arrivato il tempo della verità, per Charlie e Nicole; e la verità, si sa, non è un pezzo di carne preso in macelleria: non scade mai. E quando arriva è forte come il pugno che Charlie dà sul muro quando esplode. È forte e dice a loro due (e a noi) che sentire l’amore e capire l’amore sono due cose diverse, che si può essere pronti ma non preparati, che certi amori nascono di corsa e muoiono pianissimo, senza che ce ne accorgiamo, che ci si può lasciare amandosi tantissimo. Dice a loro (e a noi) che il soddisfacimento personale deve viaggiare di pari passo e non a scapito di quello della coppia (e dunque dell’altro), che si può essere alleati per l’amore o vittime di quello stesso amore, che si può passare dal “prendiamoci per mano” al “sono nelle tue mani assassine”.

Nicole e Charlie hanno entrambi torto e entrambi ragione, perché sono diventati incompatibili come le città in cui vivono. E ciò che li ha resi incompatibili e lontani è il presentarsi a vicenda questa contabilità del dato e del (non) ricevuto, del fatto e del (non) ottenuto, delle rivendicazioni e delle ritirate. Forse si amano ancora, ma se usi un mastrino del “dare/avere” (“io ho ho dato notorietà al tuo teatro!”/”io ti ho resa una vera attrice!”), forse sei passato dall'amore a una collaborazione professionale e allora un commercialista sarà meglio e unirà anche più del sesso.

Il paradosso è che è proprio quel litigio così catartico a far superare loro l’impasse, a far capire quando uno ha iniziato a ignorare l’altra, quando le cose hanno iniziato ad andare a puttane, quando quell'amore è diventato un amore stanco.

(Foto bellissima di una locandina bellissima scattata da una mia amica carissima.)

Solo che è troppo tardi, gli avvocati affilano armi e artigli, ricorrono ai colpi bassi e a tutti i mezzucci del caso perché il loro assistito vinca questa partita e lei ormai è a Los Angeles e lui non sarà mai più così newyorkese. È arrivato il lungo e duraturo inverno dei sentimenti.

(Sean Michaels, “L’eco delle balene”.)

È arrivata la fine e per la prima volta l’uno ha ripreso ad essere longanime con l’altro: lui riesce a sorridere a lei e al sole di Los Angeles, lei gli allaccia le scarpe. Ché si può soffrire e far del male, ma solo fino a un certo punto; e non di più.

Lei gli allaccia le scarpe e intanto noi rimaniamo con la sensazione, ed è questa forse la parte più riuscita del film, che Noah Baumbach, che lo ha scritto e diretto, stesse parlando anche di noi, in una sceneggiatura che pare universale nel descrivere l’amore che a tutti noi è rimasto addosso per persone con cui sapevamo di non poter più stare insieme: quel piccolo struggente dolore nell'imparare ad andare avanti e vivere senza qualcuno. Sorridendogli da lontano.

(“The embrace”, Josef Kunstmann (1949).)

PS: l’unico appunto che penso si possa muovere a questo film, di cui son belli la regia, la sceneggiatura, la fotografia, le simmetrie dei dialoghi e delle immagini, le già citate interpretazioni di Laura Dern e Ray Liotta, è il fatto che, avendo il regista deciso e poi ammesso di non aver lasciato spazio agli attori per l’improvvisazione, dichiarando anche di aver avuto già in mente ogni singolo stacco di camera, questa certosina e metodica precisione ha finito col togliere un po’ di spontaneità e verità alle interpretazioni (tecnicamente sopraffine) dei due protagonisti: il solito poliedrico Adam Driver e una sempre più matura e convincente Scarlett Johansson.

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