Perché sto guardando queste serie?

“13 reasons” e “Girlboss” non sono il mio genere ma alla fine le ho viste per due motivi, forse opposti

Martino Pietropoli
L’Indice Totale
Published in
5 min readMay 7, 2017

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Recentemente ho guardato “13 reasons” e “Girlboss”. Non le avrei mai guardate basandomi sulla trama: la prima è una storia adolescenziale e la seconda quella di una giovane spiantata che una decina di anni fa ha trasformato la sua passione per lo shopping in un’azienda da centinaia di milioni di dollari.

Siccome qualcuno mi ha chesto cosa vedere su Netflix e gli ho risposto “Ma sì, guardati queste” e poi quando mi han detto “Ne ho vista qualche puntata ma mi spieghi cosa ci trovi?” non sono stato pronto nella risposta, mi sono infine chiesto

Ma cosa ci trovavo in queste serie?

La prima narra la storia di una ragazza bullizzata in una scuola americana, californiana presumibilmente, che arriva a suicidarsi. Non ho svelato niente perché la cosa è dichiarata fin dall’inizio e per le 13 puntate viene ricostruita la lenta e inesorabile discesa verso la disperazione attraverso 13 registrazioni audio che lei stessa ha affidato ai protagonisti – consapevoli o meno – della violenza che lei subisce.

La seconda invece è la storia – abbastanza romanzata a giudicare da quanto ho letto di lei – di Sophia Amoroso, che una decina di anni fa ha iniziato a vendere abiti vintage su Ebay ricavandoci tali margini da farlo diventare prima un sito e poi un lavoro che nel 2013, prima che lei si dimettesse da CEO, fatturava 300 milioni di dollari. Una delle classiche storie di determinazione all’americana? Forse sì, ma pur trattandosi entrambe di storie di donne, credo che difficilmente si potrebbero trovare caratteri più distanti e svolgimenti ed esiti più diversi.

Le due vicende sono opposte per molti versi: “13” è la storia di un individuo rifiutato dalla comunità fino al gesto finale ed estremo, mentre Girlboss è la storia di una che vuole stare all’esterno della comunità, che non vuole integrarsi, pur conoscendone bene i meccanismi e avendo il cinismo per sfruttarli per il proprio vantaggio (economico, soprattutto).

Il motore di entrambe le storie è il disprezzo: della comunità per l’individuo nel primo caso e l’opposto nel secondo. Diversi sono i modi di gestirlo: nel primo è subito, nel secondo è abilmente impiegato. Hannah vuole essere accettata e integrarsi perché è un’adolescente ancora alla ricerca della propria identità; Sophia è una giovane già consapevole e disincantata che ha conosciuto la società e non vuole farne parte: vuole solo sfruttarla.

“13” non è una storia particolarmente originale ma lo è di più nel meccanismo narrativo: fin da subito si sa che lei è morta e la rivelazione (e cioè la storia in sé) consiste nello spiegare perché sia arrivata al suicidio. È interessante, pur se un po’ macchinoso e poco credibile, il come ciò avvenga, ossia attraverso delle cassette registrate con cui lei si spiega e racconta, ognuna dedicata a due personaggi (uno per lato). Ora: la tecnologia adottata è oltremodo obsoleta, specie per gli adolescenti di cui parla “13”: già per chi ha più di 40 anni come me l’audiocassetta è decrepita, immagino solo che per un 15enne di oggi sia come per me una pergamena o simile. Ma credo che una simile scelta sia stata dovuta più alla volontà di creare un piano narrativo slegato dalla contemporaneità della storia, come se l’incredulità venisse sospesa: è davvero successo quel che si racconta? Hannah è esistita davvero? Si tratta di un’allucinazione collettiva o individuale del protagonista?

“Girlboss” è invece un’agiografia e non a caso la Amoruso figura tra i produttori. Anche in questo caso niente di particolarmente originale: l’individuo che da umili origini e senza particolari qualità si costruisce da solo e ha successo ecc. ecc. Già visto mille e duecento volte. Eppure l’ho vista tutta, pur non avendo provato mai un minimo di empatia con Sophia che, alla fine, mi sembra un essere umano molto poco interessante e molto vacuo. Una furba di cui segui le gesta non per capire come si può avere successo ma piuttosto quanto si possa essere spregiudicati per avere successo. Non è nemmeno narrato in maniera particolarmente brillante: direi piuttosto con maniera e basta, nel senso che così si può fare in maniera professionale una serie tv, scrivendola benino, dirigendola benino, dando una certa labile struttura alla storia di un essere umano per niente esemplare.

Ok, ma perché le ho viste alla fine? Curiosamente parlandone ho ricevuto pareri favorevoli o sfavorevoli nettamente distinti per sesso: le donne non hanno amato Hannah e hanno amato Sophia e viceversa. Non so — perché non ho approfondito — se il sentimento sia rivolto precisamente alle protagoniste o alla vicenda in sé ma ho trovato interessante che pochissime donne si identificassero o provassero compassione per Hannah e invece simpatizzassero per l’umanamente mediocre Sophia.

Credo che le due storie parlino di due fasi della nostra vita e di due atteggiamenti diversi che al riguardo se ne può avere: l’adolescenza e la ricerca della propria identità e, in “Girlboss”, il nostro rapporto col cambiamento. Ma sono anche rappresentative di due tempi distinti: il passato di “13” — un’epoca risolta e conclusa per gli adulti — e il futuro di “Girlboss”: ciò che eravamo e ciò che potremmo essere. Non siamo stati adolescenti fragili (altrimenti ci saremmo suicidati e non staremmo qui a raccontarlo) e non siamo ancora adulti risolti. Ci interessa vedere ciò che non siamo stati e anche ciò che potremmo essere. Piaccia o non piaccia Sophia, rappresenta un individuo che ha un rapporto semplice col tempo: lo ignora. Il tempo è infatti composto di momenti che hanno conseguenze, che causano e sono causati. Eppure lei è incurante delle conseguenze che avrà una sua azione e se ne frega di essere scorretta. In “13” azione e reazione hanno conseguenze, in “Girlboss” le azioni, specie le più basse, non hanno conseguenze negative e quindi è come se non esistessero.

“13” costruisce un edificio per chi non riesce ad appartenere, “Girlboss” per chi invece non vuole appartenere. La prima narra di azioni con conseguenze, la seconda di azioni che accadono in un vuoto spinto: non provocano reazioni se non quelle economiche. Sono, alla fine, due storie vecchissime: quella di chi non ce la fa e quella di chi invece ci riesce. Ai termini della società, cioè facendo soldi ed essendo accettati perché si è stati capaci di farli: non appartenere e appartenere, alla fine.

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Martino Pietropoli
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Architect, photographer, illustrator, writer. L’Indice Totale, The Fluxus and I Love Podcasts, co-founder @ RunLovers | -> http://www.martinopietropoli.com